ORGANIZZAZIONE CAPITALISTICA DEL LAVORO E DIRITTO ALLA SALUTE: INTENSIFICAZIONE DEI RITMI, MALATTIE PROFESSIONALI E RESISTENZA DELLA CLASSE LAVORATRICE
INTERVIENE DOTT. DARIO FONTANA
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INTRODUZIONE
Dallo scoppio della crisi pandemica internazionale, da più parti si è tornati a discutere dell’importanza del diritto alla salute e della necessità di invertire il segno di quelle politiche economiche catastrofiche che, sempre di più, avevano delegato alla “mano invisibile” del mercato la tutela della salute pubblica. In quel periodo, la nostra confederazione ha assunto sicuramente un ruolo di primaria importanza sia per aver continuato a fornire varie forme di tutela ai lavoratori e alle lavoratici sui luoghi di lavoro, sia per aver provato ad intervenire – con modalità differenziate sui vari territori – nelle diverse vertenze che si venivano ad aprire su tutto il territorio nazionale (dalla Sanità fino alla Scuola).
Il dibattito di quei mesi, però, si scontrò con il limite di affrontare il tema della salute della classe lavoratrice solamente da una “prospettiva macro”, guardando cioè ai problemi più generali; oggi, al contrario, vogliamo provare a colmare quella lacuna guardando, ci sia concessa questa espressione, ad un “prospettiva micro”: cioè legata al rapporto tra la specifica organizzazione capitalistica del lavoro e la tutela dei livelli di salute dei lavoratori. Cerchiamo, dunque, di entrare, sia pur sommariamente, nei dettagli di questa problematica prima di presentare il relatore di questa serata.
Per l’economia capitalistica, l’estensione del processo di mercificazione della forza-lavoro è una esigenza ineliminabile di conseguenza ricevere un salario per un determinato quantitativo di ore di lavoro vuol dire accettare di lavorare alle dipendenze di un soggetto terzo che ha la proprietà giuridica sui mezzi di produzione ed esercita un controllo pieno sull’attività produttiva (lo stesso vale per lo Stato in quanto “capitalista collettivo”). La differenza tra il valore prodotto durante la giornata lavorativa e il salario è il “termometro” che misura i livelli di sfruttamento.
I diversi modi in cui ci viene imposto di lavorare, a discapito della retorica sulla “partecipazione” molto in voga in questi decenni, sono decisi dagli alti livelli della gerarchia aziendale – che, in un ultima analisi, rispondono agli azionisti – con la logica di massimizzare il nostro rendimento individuale e collettivo. Non ci deve stupire, quindi, se i problemi dei quali discutiamo con i lavoratori sono sempre gli stessi: sotto dimensionamento strutturale dell’organico, intensificazione dei ritmi, aumento dei carichi di lavoro, restrizione degli spazi di autonomia e discrezionalità, ecc… Allo stesso modo, anche le stesse tecnologie, di cui oggi tanto si parla e spesso a sproposito, incorporano – nella fase di progettazione e di utilizzo – quei principi di comando sul lavoro che, in definitiva, servono interessi estranei a quelli di chi concretamente le utilizza, tutti i giorni, sui luoghi di lavoro.
Per questo motivo, non ci siamo mai stupiti che, pur in presenza dell’applicazione dei più nuovi sistemi di organizzazione del lavoro conosciuti come “produzione snella” (Lean Production) e delle tecnologie informatiche/digitali più moderne, i lavoratori abbiano sempre lamentato un peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di salute a causa di movimenti ripetitivi, sempre più veloci e standardizzati e di un accrescimento dei loro livelli di stress in relazione ad obiettivi/task aziendali sempre più complicati ed irrealizzabili. Si tratta di effetti facilmente riscontrabili in ogni ambito lavorativo, tanto in una tradizionale fabbrica quanto in un ospedale/RSA. Negli ultimi decenni nessun settore o ambiente di lavoro è stato risparmiato da un processo di riorganizzazione che ha nel taglio degli “sprechi” (di dipendenti, di spazi, di tempi morti, ecc…) e dei costi connessi, la sua ossessione di fondo.
Per aiutarci ad indagare, più in profondità, questa “relazione pericolosa” tra organizzazione capitalistica del lavoro e salute abbiamo chiamato a discuterne con noi Dario Fontana, ricercatore di sociologia del lavoro presso la Struttura Complessa a Direzione Universitaria “Servizio Sovrazonale di Epidemiologia” di Torino. Dario ha scritto un testo, che riteniamo di notevole importanza, dal titolo:“Digitalizzazione Industriale un inchiesta sulle condizioni di lavoro e di salute” (pubblicato dalla casa editrice Franco Angeli nel 2021). La particolarità di questo lavoro – di cui consigliamo a tutti la lettura e da cui partiremo per la nostra discussione di questa sera – consiste nel demistificare, con una solida base empirica, le sciocchezze che vengono diffuse ai quattro venti dai presunti esperti del capitale. La ricerca condotta da Dario Fontana ha coinvolto i dipendenti di 8 aziende di medio-grandi dimensioni della provincia di Modena, collocate in diversi settori produttivi dalla metalmeccanica fino al settore finanziario, e dimostra sia che negli ultimi anni, le condizioni di lavoro sono peggiorate in relazione alle scelte economiche-produttive di valorizzazione del capitale, sia che se vogliamo capire come la salute dei lavoratori sia costantemente minacciata sui luoghi di lavoro dobbiamo partire proprio dai principi adottati nella riorganizzazione dei processi produttivi e dalla forma specifica che questi assumono.
A interloquire con Dario Fontana stasera ci sono due nostri delegati la cui attività si svolge in ambiti differenti e che riferiranno del modo in cui quotidianamente, in diversi posti di lavoro, ci si confronti con il problema della salute. Si tratta di Margherita Napoletano che opera nel settore sanitario e socio sanitario e di Diego Bossi che lavora in una grande fabbrica del settore gomma-plastica.
Prima di dare la parola a Dario vorrei fare due ultime precisazioni: in primo luogo va detto che noi pensiamo questi nostri seminari come strumenti utili a focalizzare la nostra attenzione sui problemi più urgenti per la classe lavoratrice e per orientare la nostra azione perciò pensiamo che la nostra organizzazione sindacale debba attrezzarsi per lanciare una vasta campagna in favore di una reale tutela della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori sui posti di lavoro; si tratta di un imperativo politico tanto più forte quanto più l’attuale fase di reazione padronale si accompagna a numeri di infortuni e morti sul lavoro inaccettabili e stazionari da anni. in secondo luogo dobbiamo avere la consapevolezza che non avremo grande compagnia poiché è bene sottolineare che, nel generale degrado dei salari e dei diritti generato dalle politiche concertative, anche sul tema della tutela della salute e della sicurezza CGIL-CISL e UIL brillano per scarsa contrapposizione – in certi casi anche aperta collusione – nei riguardi delle direzioni aziendali, a partire dall’accettazione di un ruolo del tutto subalterno del Rappresentante dei Lavoratori alla Sicurezza (RLS). Nei fatti il ruolo dell’RLS, così come è disegnato nel Testo Unico sulla Salute e Sicurezza (Dlgs 81/2008) è un ruolo che, oltre ad essere legato agli accordi concertativi sulla rappresentanza, è puramente consultivo, privo di un potere reale di contrasto o di veto circa le scelte aziendali. Basti pensare che, pur venendo consultato sulla redazione del Documento di Valutazione dei Rischi in azienda (un documento molto complicato in cui si individuando le misure di sicurezza da adottare rispetto all’organizzazione del lavoro) non può nemmeno portarne una copia fuori dai muri aziendali, cosa che ne limita la possibilità di consultare esperti e perciò di intervenire in modo attivo e ponderato.
In conclusione, dunque, se l’attacco alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici è connaturato alle necessità della moderna produzione capitalistica e cioè alla sua necessità di evitare “sprechi” per massimizzare i profitti, allora è proprio la contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro che deve stare al centro della nostra pratica sindacale che deve certamente puntare a contrattare salari più alti ed orari di lavoro più corti (a parità di salario), ma deve anche investire problematiche più generali: la salute, la sicurezza, i carichi di lavoro, il modo di utilizzo di determinate tecnologie, ecc…
Anche in contrapposizione con chi ritiene possibile salvare il nostro “piccolo” apparato burocratico attraverso una omologazione al sistema dominante della rappresentanza sindacale, noi abbiamo l’obbliogo di puntare in alto e cercare di sperimentare e valorizzare forme di consapevolezza e, perché no, di controllo operaio sui processi produttivi utili a mettere in discussione i principi di autorità padronale (autocratica) sui luoghi di lavoro, e da lì provare a capovolgere i rapporti di forza più generali nella società capitalistica. Da questo punto vista, sappiamo di non scoprire nulla di particolarmente innovativo, ma di dover più semplicemente ri-attualizzare i motivi per cui nel 1992 si diede vita alla Nostra confederazione. Con questo auspicio passiamo la parola a Dario Fontana a cui poniamo, per iniziare tre domande:
1) Il rapporto tra organizzazione capitalistica del lavoro e salute è al centro del tuo lavoro ma nel dibattito pubblico ed accademico è un tema scarsamente approfondito. Ci puoi illustrare i principali risultati delle tue ricerche empiriche in merito a questo rapporto?
2) Si fa un gran parlare del valore “emancipativo” e “democratico” insito nelle tecnologie digitali, in connessione con le forme di organizzazione della “produzione snella”. Sulla base dei tuoi lavori di ricerca è possibile sviluppare una visione più critica dei processi di innovazione tecnologica nell’attuale economia capitalistica?
3) Come pensi che un sindacato di base e conflittuale debba gire per rilanciare la battaglia generale per la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro?