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LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO NELL'ERA NEOLIBERALE MERCIFICAZIONE, PRECARIZZAZIONE, TERZIARIZZAZIONE E DIGITALIZZAZIONE ESPERIENZE DI RESISTENZA SINDACALE

INTERVIENE PROF. ENZO MINGIONE

INTRODUZIONE:

Buonasera a tutti coloro che ci ascoltano, quest’oggi riprendiamo i nostri appuntamenti di formazione/informazione con l’obiettivo di dare continuità al lavoro di approfondimento teorico che avevamo già iniziato durante la crisi pandemica. In quel contesto, sotto molti punti di vista, differente dall’attuale, avevamo iniziato – con altri 4 webinar – ad indagare le principali trasformazioni avvenute negli ultimi decenni  sia nella struttura tecnica della classe lavoratrice sia nei modelli organizzativi delle imprese.

Partivamo dalla necessità di aprire un confronto ampio – senza particolari barriere ideologiche – sul  come ripensare le forme della rappresentanza dei lavoratori in un contesto (nazionale ed internazionale) profondamente segnato dal crescere della precarizzazione strutturale del lavoro, da livelli sempre più alti di disoccupazione strutturale e dalla frantumazione delle filiere produttive attraverso il ricorso massiccio ad esternalizzazioni e delocalizzazioni di segmenti produttivi. In quel momento, infatti, la diffusione del virus sembrava poter rimettere in discussione una conformazione della produzione internazionale che aveva fatto del just-in-time e della flessibilità estrema i due pilastri centrali dell’attacco al lavoro e della crescita delle diseguaglianze, almeno a partire dalla svolta neo-liberale degli anni Ottanta.

Ovviamente, se da un lato eravamo abbastanza scettici sul fatto che la ripartenza dell’economia mondiale sarebbe avvenuta su principi alternativi (chi non ricorda quando si diceva “nulla sarà più come prima!”), dall’altro non potevamo prevedere l’aggravarsi delle condizioni materiali delle classi popolari come conseguenze dell’invasione russa in Ucraina e dello stato di guerra globale per procura che ne è derivato. Resta il fatto è che dentro l’attuale mercato mondiale, sempre più caratterizzato dalla feroce competizione tra blocchi economico-militari contrapposti, da pratiche commerciali aggressive e protezionistiche, dalla compressione dei diritti e dei redditi dei salariati, manca all’appello – salvo rari casi di vertenze aziendali e settoriali – proprio un movimento organizzato dei lavoratori.

Se guardiamo al nostro panorama nazionale dobbiamo sottolineare il grado di frammentazione e impoverimento della forza lavoro che si è raggiunto: oltre 3 milioni di lavoratori sono assunti con contratti a termine ed un numero altrettanto alto di salariati riceve paghe orarie da fame: pensiamo alle guardie giurate, agli impiegati nelle pulizie, nei multiservizi, nel turismo, nella ristorazione; ai lavoratori della gig economy, ecc…). Secondo una ricerca, presentata lo scorso primo maggio dalle ACLI, il 14,9% dei lavoratori ha un reddito inferiore o pari a 9.000 euro, il 19,5 non  va oltre gli 11.000 che diventa il 29,4% se si pone la soglia a 15.000 euro. Si tratta di una condizione di miseria che colpisce prevalentemente le donne, i giovani e chi vive nel sud del Paese ma che si fa largo anche nella restante parte d’Italia se è vero che anche nel nord la soglia dei 15.000 euro interessa oltre un quarto dei lavoratori.

Questa condizione è insieme effetto e causa di un altro dato allarmante: dal 1990 ad oggi il salario reale nel nostro Paese è calato del 2,9% e poiché nello stesso tempo la produttività del lavoro è invece cresciuta, se ne deve dedurre che, nello stesso periodo, si sia dato un progressivo trasferimento di ricchezza dalle classi popolari a quelle più abbienti generando l’inaccettabile diseguaglianza che caratterizza il nostro tempo.

Ovviamente il compito che ci siamo dati consiste nel chiederci come questo sia accaduto e se sia possibile porvi rimedio, con la consapevolezza che la spiegazione non sta solo nei progressivi cedimenti delle maggiori organizzazioni sindacali sul terreno del conflitto sociale e cioè nella sottoscrizione di quegli accordi  di concertazione e limitazione del diritto di sciopero in virtù dei quali oltre la metà dei lavoratori italiani attende, in molti casi da anni, l’adeguamento salariale cui avrebbero diritto. Dovremo infatti indagare anche  ragioni più generali e strutturali, quelle che riguardano la gestione dei processi economici e le scelte politiche compiute in materia di economia e lavoro. Si tratta cioè di ragionare sull’insieme delle condizioni che oggi conducono le classi popolari in una situazione insostenibile.

Una strada che ci sembra particolarmente fertile è stata aperta proprio dal nostro relatore e ruota intorno alla nozione di “capitalismo insostenibile”. In sostanza, dobbiamo prendere atto che i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni all’insegna del liberismo più spinto – che prima abbiamo velocemente e sommariamente richiamato – la pretesa di ricondurre l’intera società alla logica del mercato che si autoregola stanno progressivamente aprendo crepe sempre più profonde nelle società occidentali e rischiano  di farci approdare verso una nuova guerra mondiale.

Per aiutarci a condurre questa ricerca abbiamo pensato al professor Mingione, uno dei più importanti e conosciuti sociologi italiani. Per chi non lo conoscesse diciamo che Enzo Mingione è stato preside della Facoltà di sociologia all’Università Bicocca di Milano dove ha insegnato per molti anni. Oggi è professore emerito e presidente della fondazione Bignaschi. Si occupa principalmente di Sociologia economica, i suoi campi di ricerca scientifica riguardano la povertà e l’esclusione sociale con particolare attenzione ai contesti urbani; i meccanismi di regolazione sociale dell’economia e il settore informale dell’economia; il mercato del lavoro e la disoccupazione. È autore di molte pubblicazioni in Italia e all’estero, per l’attinenza con l’argomento del nostro seminario, richiamiamo oggi due libri ai quali ha lavorato, entrambi editi da Feltrinelli. Il primo si intitola “Lavoro: la grande trasformazione”; il secondo “Dieci idee per ripensare il capitalismo”.

Come abbiamo già detto, i processi di mercificazione e privatizzazione sempre più spinti, non  vedono un’adeguata risposta organizzata da parte dei soggetti che ne subiscono gli effetti maggiormente negativi. Perciò in questi nostri seminari vogliamo ragionare non solo sui macro-processi ma anche riprendere e  valorizzare l’esperienza di chi si batte quotidianamente sui posti di lavoro per tutelare gli interessi dei lavoratori contro ogni falsa compatibilità. Abbiamo quindi chiamato a portare il loro contributo due nostri compagni che lavorano in settori produttivi investiti profondamente  dai cambiamenti in corso: Gianni Cervone che opera nella logistica del trasporto aereo a Malpensa e Linate e  Dario Montalbano,  lavoratore del terziario avanzato e delegato sindacale.

Ma ho già parlato fin troppo e perciò lascio la parola al professor Mingione ponendogli tre domande:

  1. Quali sono, a suo parere, le principali trasformazioni del lavoro, delle imprese e dell’economia a partire dalla svolta delle crisi energetiche degli anni ’70?
  2. Quali sono gli effetti che, a suo avviso, produrrà la digitalizzazione della produzione e dei servizi sui lavoratori (non solo di “produzione”, ma anche impiegatizi)?
  3. Come vede, per il futuro, l’evoluzione del capitalismo italiano in un contesto caratterizzato da crescita più bassa, politiche monetarie restrittive e probabile ritorno ai vincoli di spesa pubblica?