CAPITALISMO, MERCATO E CONTRATTO DI LAVORO PERCORSI DI EMANCIPAZIONE DEL LAVORO SALARIATO NEL XXI SECOLO

INTERVIENE PROF. ERNESTO SCREPANTI

RELATORE
Ernesto Screpanti
già Professore di Economia Politica Università degli studi di Siena
 

INTRODUZIONE:

Buonasera, il seminario che stiamo avviando ospita il prof. Ernesto Screpanti e due storici militanti della CUB attivi in settori investiti dalle profonde trasformazioni che investono i rapporti di lavoro nella presente fase di sviluppo capitalistico: Stefano Capello e Mattia Scolari. Come al solito è attiva la diretta Facebook sulla pagina della CUB di Milano e chi intendesse porre domande lo potrà fare sulla chat collegata a quella pagina.

L’attuale forma del rapporto di lavoro, regolato da un contratto stipulato tra datore di lavoro e prestatore di manodopera, è relativamente recente. Esso si afferma dopo la transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico quando la mercificazione della forza-lavoro – preceduta dalla spoliazione del controllo sui mezzi di produzione dei piccoli contadini ed artigiani – si maschera con la “novità” di offrire al lavoratore la formale libertà di decidere se vendere o meno – a fronte di un pagamento in denaro – le sue capacità lavorative (manuali ed intellettuali).

Libertà formale poiché il rapporto di lavoro nel sistema capitalistico, e il contratto individuale che lo regola, sono fondati su una relazione tra soggetti diseguali in quanto dotati di diverso potere. In quella relazione il lavoratore e la lavoratrice subordinano la propria prestazione di lavoro ad un soggetto più forte che esercita un comando/controllo esterno il quale si manifesta nell’imposizione minuziosa di obblighi circa gli orari, la prestazione, le mansioni, la paga, la fedeltà all’azienda e quant’altro. Insomma più che l’esercizio di una libertà il contratto definisce la reale sottomissione del lavoratore al padrone. Si dovrebbe quindi parlare più propriamente di una relazione di dominio che rovescia sui salariati diversi problemi, non ultimo il fatto di privare di ogni aspetto creativo l’attività di lavoro degradandola a puro strumento utile ad ottenere il necessario per sopravvivere.

Nel corso del tempo, nelle società capitalistiche avanzate, i contratti individuali sono stati inquadrati dentro la contrattazione collettiva e, negli ultimi decenni, si è regolamentato questo sistema di comando autocratico sul lavoro attraverso articolati sistemi di relazioni industriali, accompagnati da un complesso di norme giuridiche che nella sostanza sono serviti sia a regolamentare il conflitto e il dissenso sui luoghi di lavoro e nella società sia a cooptare le organizzazioni sindacali maggiori attraverso lo scambio tra accettazione di forti limitazioni delle forme di protesta (la compatibilità con le controparti datoriali ed istituzionali) e la concessione di contropartite materiali in termini di finanziamenti indiretti e di servizi.

Nel nostro Paese, quanto detto ha assunto – almeno a partire dai primi anni Novanta – il nome di “concertazione sociale” ossia una pratica di collaborazione tra CIGL-CISL-UIL, padronato e governo con cui si sono via via regolamentate importanti materie economiche, di politica sociale e relative alla contrattazione collettiva. Una tappa fondamentale in questo percorso è costituita dal varo della L. 146/90 che, come sappiamo, ha imposto pesanti vincoli all’esercizio del diritto di sciopero in molti settori pubblici e privati.

I risultati sono noti: profitti in crescita e salari reali in ritirata, precarizzazione strutturale del rapporto di lavoro, crescita del lavoro povero e della disoccupazione (in particolare femminile e giovanile), aumento della vita lavorativa, peggioramento delle condizioni di salute/sicurezza, tagli del welfare pubblico ed universale. Nello stesso tempo abbiamo visto letteralmente “esplodere” i milioni di euro dirottati in enti bilaterali, fondi sanitari e previdenziali privati e fondi complementari per la cogestione (tra la triplice ed il padronato) dei TFR e della sanità integrativa.

La concertazione e la feroce sottomissione del lavoro hanno permesso di tenere sotto controllo il crescente malessere sociale e di blindare ulteriormente il sistema della rappresentanza sindacale con la sottoscrizione del  TUR del 2014 che accoglie il “modello Marchionne” e garantisce il  monopolio dei diritti sindacali a CGIL-CISL-UIL in cambio di una stretta ulteriore al diritto di sciopero. Il Testo Unico Sulla Rappresentanza, infatti non solo nega a chi non lo firma la possibilità di partecipare alle elezioni delle RSU, ma anche di  scioperare contro possibili accordi (anche peggiorativi) firmati dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali – pena pesanti sanzioni.

Dunque la situazione che ci troviamo a fronteggiare e alla quale dobbiamo saper rispondere è quella di una pesante “gabbia” costruita contro il conflitto sociale e fondata sulla comune accettazione delle “regole del mercato” tra padronato, governo e grandi centrali sindacali. Una gabbia le cui sbarre sono formate da norme di legge e accordi tra le parti sociali e che perciò consente l’uso di molti arnesi, contrattuali e legali, contro chi non si adatta a comportamenti “responsabili”: per i singoli lavoratori si arriva a brandire il bastone del licenziamento,  che non a caso è diventato enormemente più facile con il Jobs Act mentre per le organizzazioni sindacali conflittuali, come la nostra, vi è la sostanziale cancellazione dei diritti sindacali anche in quei posti di lavoro dove vantano una forte presenza organizzata.

Ernesto Screpanti – già docente di economia politica all’Università di Siena – ha offerto notevoli contributi per un ripensamento – al passo con i tempi – della critica al modo di produzione capitalistico a partire da ciò che avviene con la firma “del regolare contratto di lavoro”, vedendo in questo atto la costituzione del  rapporto di autorità che consente la concreta soggezione del lavoro al capitale. Ma i suoi interessi di ricerca sono, in realtà, molto più vasti e vanno dalla rilettura della teoria del valore marxiana, allo studio dei processi di globalizzazione e alla storia della teoria economica. Ha poi ripreso il concetto di libertà declinandolo come esercizio di una reale capacità di scelta e osservando che, nel nostro sistema capitalistico, la libertà di scelta dentro il processo produttivo è pressoché nulla per i lavoratori mentre è  massima per  i capitalisti così come, nella sfera del consumo, è bassissima per gli strati sociali poveri e alta per le classi privilegiate. L’agire conflittuale per una società più giusta deve quindi tendere ad una migliore distribuzione della libertà di scelta a favore delle classi sociali meno abbienti. Non a caso il suo più recente saggio si intitola  “Liberazione. Il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente.” ed è facilmente reperibile in formato cartaceo o digitale usando un qualunque motore di ricerca.

Al termine di questa breve presentazione passo la parola al nostro relatore ponendogli alcune domande:

  • Perché la sua critica del modo di produzione capitalistico pone al centro proprio il contratto di lavoro?
  • Il comando sul lavoro trova un ostacolo nel conflitto praticato dai lavoratori: quali possibilità di emancipazione del lavoro e di coloro che lo erogano possiamo pensare oggi?
  • Lei ha posto l’accento sulla tematica della “libertà” in un progetto di superamento del sistema del lavoro salariato. A suo modo di vedere, qual è il compito che un sindacato deve svolgere per partecipare a questo processo?