Smantellamento produttivo e licenziamenti repressivi

Cosa sta succedendo in Stellantis

Introduce e modera:
– Natale Alfonso – CUB Sur
 
Ne discutiamo con:
– Delio Fantasia – operaio licenziato da Stellantis e segretario FLMUniti CUB di Frosinone
– Giordano Spoltore – operaio Stellantis e coordinato provinciale Slai Cobas di Chieti
– Dionisio Masella – ex delegato sindacale Alfa Romeno e FLMUniti CUB Milano
– Carlo Pariani – ex delegato sindacale Alfa Romeno e FLMUniti CUB Milano
 
GIOVEDì 22 FEBBRAIO ORE 20.30
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SMANTELLAMENTO PRODUTTIVO E LICENZIAMENTI REPRESSIVI COSA STA SUCCEDENDO IN STELLANTIS

22 febbraio 2024

INTRODUZIONE

 

Buonasera a tutte le persone che ci ascoltano in diretta e che ci ascolteranno in differita sulle nostre pagine FB e sul nostro canale you tube. Buonasera anche ai nostri ospiti che presenterò tra poco.

Il confronto di questa sera nasce dalla necessità di capire cosa accade dentro Stellantis, un’azienda che, avendo raccolto l’eredità FIAT, costituisce gran parte del comparto industriale dell’automobile nel nostro Paese.

Com’è noto Stellantis nasce dalla fusione, nel 2021, di FCA e PSA. Nasce così il 4° produttore mondiale di autoveicoli caratterizzato da questi dati:

1) oltre 270 mila dipendenti di cui circa 45 mila in Italia;

2) 14 marchi detenuti. Da Fca arrivano Abarth, AlfaRomeo, Crysler, Dodge, Fiat, Jeep, Lancia, Maserati, Ram Trucks e Leasys mentre PSA porta in dote Citroen, Opel, Peugeot, DS Automobiles, Vauxhall e Free2move;

3) oltre 50 stabilimenti presenti in + di 30 paesi del globo di cui 6 in Italia;

4) fatturato netto del gruppo nel 2023 pari a 189 miliardi di euro;

5) utile netto nel 2023 per oltre 18 miliardi euro: il 10% del fatturato!

Ci troviamo quindi di fronte ad un gigante compiutamente transnazionale in cui le leve del comando strategico si trovano in Francia e di cui lo stato francese possiede il 6,2%. Nonostante la fusione tra FCA e PSA sia stata dichiarata paritetica, la realtà ci dice che si è trattato dell’acquisizione di FCA da parte di PSA poiché cinque membri del consiglio d’amministrazione di Stellantis su dieci sono di provenienza PSA, l’amministratore delegato di PSA è diventato il numero uno di Stellantis e ai soci di FCA è stato riconosciuto un prezzo di acquisto sotto forma di dividendo straordinario.

I 6 stabilimenti italiani di assemblaggio autoveicoli con i modelli assegnati a inizio 2024 sono:

  • MIRAFIORI CARROZZERIE (500 elettrica anche in versione Abarth e le Maserati Levante, Ghibli, Quattroporte, Granturismo e Gran Cabrio con le nuove versioni Folgore full-elettric);
  • MASERATI MODENA (la supersportiva MC20 di Maserati e la versione cabrio Cielo);
  • CASSINO (Alfa Romeo Stelvio e Giulia e la Maserati Grecale);
  • POMIGLIANO (Fiat Panda, suv Alfa Romeo Tonale e Dodge Hornet);
  • MELFI (Fiat 500X, Jeep Compass e Renegade. Dal 2024 previsti 5 modelli elettrici);
  • ATESSA (Fiat Ducato, Opel Movano, Citroen Jumper, Peugeot Boxer. Sono previsti i veicoli elettrici per Toyota);

Ma Stellantis possiede anche le Meccaniche di Mirafiori e di Verrone (TO), dove si producono i cambi, gli stabilimenti di Pratola Serra (AV) e Termoli (CB) dove si fanno i motori diesel, quello di Cento (FE) dove si producono i motori industriali marini. A Termoli dal 2026 è prevista la gigafactory Acc per le batterie. Ci sono infine la Teksid di Carmagnola (siderurgia per l’automotive) e il Comau (automazione industriale).

Non mi soffermo sui modelli assegnati ai diversi stabilimenti e che ne garantiscono la sopravvivenza produttiva perché questi sono oggetto di continue revisioni e sono usati dall’impresa come clava da sbattere sul tavolo nelle continue trattative con i governi nazionali e locali per ottenere ammortizzatori sociali e sovvenzioni. Occorre invece spendere 2 parole sul momento contingente, in particolare sulla transizione verso l’abbandono del motore endotermico e l’abbattimento della produzione di CO2 e di polveri, imposto dalle direttive europee, entro il 2035 per le automobili ed entro il 2040 per i veicoli da trasporto merci. Si tratta di misure che avranno un impatto fortissimo sull’occupazione diretta e sull’indotto dell’intero settore automotive. Stime confindustriali ipotizzano una perdita di 275.000 posti in UE di cui 73.000 in Italia dove vi è una forte presenza di attività legate alla powertrain del motore a combustione interna.

Quindi la tenuta del settore è in dubbio, nonostante esso conservi un peso determinante sul totale dell’industria italiana, con un fatturato che nel 2019 valeva il 5,6% del PIL e con addetti pari al 7% dell’intera forza lavoro industriale. Questo si vede anche osservando che, nel tempo, si è fortemente ridotta la produzione nazionale di autoveicoli. Se guardiamo il periodo dal 1997 al 2021 questa si è più che dimezzata passando da oltre 1,8 milioni a 700.000 con meno di 500.000 autovetture. Ne esce un quadro di difficoltà che si possono superare solo attraverso un piano ampio e strutturale di investimenti in ricerca e sviluppo attingendo alle risorse interne delle aziende del settore piuttosto che rivendicando finanziamenti pubblici e l’asservimento della scuola alla produzione di competenze lavorative immediatamente spendibili. In fondo se consideriamo che il PNRR italiano destina all’intero settore dell’automotive, 5,5 mld di euro possiamo dedurre che imprese come Stellantis, dall’alto dei propri 19 mld di utile sarebbero certamente in grado di provvedere alla necessità di fronteggiare il cambiamento garantendo l’occupazione, se solo lo volessero.

Analizzare il presente richiede anche un po’ di storia fatta dal nostro punto di vista e in Italia la storia del movimento operaio si è sempre intrecciata con quella della Fiat che, oltre ad essere stata per molti anni la principale azienda privata italiana, ha sempre anticipato – rispetto al piano nazionale – sia le evoluzioni nei modelli di organizzazione del lavoro (principalmente realizzate per per colpire le posizioni di forza conquistate dai lavoratori), sia le fasi di ripresa delle lotte come avvenne a partire dai primi anni Sessanta del secolo scorso, prima come reazione all’insopportabile autoritarismo vallettiano (quello delle schedature politiche e dei reparti confino) e, alla fine di quel decennio, come portato della grande rivolta dell’operaio massa.

È quella la stagione dei consigli di fabbrica, un importante laboratorio di sperimentazione di forme di contropotere operaio e di unità sindacale. È anche la stagione delle grandi conquiste salariali che culminano nella conquista del punto unico di contingenza nel 1975 e delle conquiste sociali in termini redistributivi della ricchezza e di accesso al welfare (tassazione progressiva, riforma sanitaria, scuola di massa, statuto dei lavoratori, ecc…) . Poi, a partire dalla cosiddetta “svolta dell’EUR” (lo storico cedimento sindacale del 1978 che inaugura la politica dei sacrifici subito in cambio di vantaggi occupazionali che non arriveranno mai) si apre il lento declino che porterà la dirigenza FIAT ad un controllo pressoché totale sui livelli di conflittualità e di antagonismo dei lavoratori.

Il protagonista di questo processo fu Cesare Romiti: Amministratore Delegato dal 1976 al 1998. Nel 1979 saggia la resistenza operaia licenziando 61 dipendenti, scelti tra i lavoratori e i delegati più combattivi, con motivazioni squisitamente politiche ed evocando un rischio terrorismo che in seguito la magistratura smentirà. Incassato quel risultato nel silenzio complice della sinistra politica e sindacale, meno di un anno dopo, annuncia il licenziamento di 14.500 dipendenti e mentre regge lo scontro con la protesta operaia cerca e raggiunge l’accordo coi vertici di CGIL-CISL-UIL al punto che si vanterà in seguito di aver scritto di suo pugno l’accordo che concludeva lo sciopero dei 35 giorni e che concedeva alla FIAT quei 24.000 licenziamenti mascherati da cassa integrazione che permettono di decapitare la generazione operaia dei consigli, quella più combattiva e più attenta alla necessità del controllo operaio in fabbrica. In questo senso Cesare Romiti – dopo Vittorio Valletta e prima di Sergio Marchionne  – rappresenta sicuramente una figura spartiacque nella storia della Fiat.

Nel clima di forzata pace sociale che si apre, la Fiat si impegnò in due direzioni: da un lato, sperimentò una fase di spinta all’automazione dei processi produttivi (l’inaugurazione dello stabilimento di Cassino nel 1972 rientrava in questa strategia) e di decentramento delle fasi di lavorazione ritenute non centrali; dall’altro lato avviò quel processo di “sbarco” nel Meridione alla ricerca di nuovi “prati verdi” da colonizzare alla civiltà industriale, accolta da una classe politica ben disposta ad elargire lauti finanziamenti a fondo perduto e da una manodopera locale che riteneva più docile perché priva di tradizione sindacale in fabbrica.

Questa fase si apre e si conclude simbolicamente in due momenti nello stesso luogo: inizia nel 1993, con l’inaugurazione dello stabilimento Fiat-Sata di Melfi nel quale si sperimentano, non casualmente, i principi del toyotismo giapponese (oggi negli stabilimenti italiani del gruppo Stellantis viene applicato il WCM che è considerata l’ultima evoluzione della cosiddetta “lean production”); termina il 17 aprile 2004 ossia il primo giorno di sciopero, dei 21 complessivi, che paralizzeranno tutte le attività dello stabilimento e della sua area industriale. Storicamente quella lotta ci appare come l’ultima vittoria, in un contesto più generale di smobilitazione e di arretramento del movimento operaio nel nostro Paese.

Gli anni Novanta e i primi Duemila, rappresentano per la Fiat un periodo di profonda crisi interna dovuta ad un insieme di fattori. Sicuramente, è questo il momento nel quale assistiamo ad processo di forte “finanziarizzazione” delle attività del gruppo, a cui corrispondevano sia una scarsa capacità manageriale sia la scelta di non puntare su nuove produzioni e nuovi modelli. Ne conseguono il crollo delle quote di mercato, a favore dei  tradizionali produttori occidentali e dei nuovi produttori asiatici, nonchè lo scivolamento progressivo nelle classifiche internazionali dei produttori di autovetture, fino a rasentare la possibilità del fallimento. Questo sembrava allora l’inevitabile destino di un’impresa strutturalmente incapace di competere sul piano della “qualità” dei suoi prodotti. Per dovere di cronaca, ricordiamo anche che, in questi anni, la Fiat riuscì ad acquistare le attività dell’Alfa Romeo a prezzo di saldo e grazie all’intervento di Romano Prodi, allora presidente dell’IRI che ne deteneva la proprietà. In quella vicenda lo stabilimento di Arese – comune alle porte di Milano – fu teatro di un importante scontro tra i delegati più combattivi del consiglio di fabbrica ed il nuovo management di ispirazione torinese. Il lungo “braccio di ferro” si concluse solamente con la chiusura dello stabilimento nel 2005.

Il 2004, è l’anno della nomina di Sergio Marchionne a nuovo Amministratore Delegato della Fiat. Se, in un primo momento, la sua scelta venne accompagnata da diversi attestati di stima – in particolare nell’ambito del centro sinistra e del sindacalismo confederale -, bastarono pochi mesi per accorgersi che il suo mandato era legato ad un progetto di ristrutturazione radicale della struttura aziendale lungo tre direttrici:

  • in primo luogo era ritenuto necessario l’allargamento del perimetro aziendale e sfruttando la crisi del 2008 riuscì, senza oneri per la famiglia proprietaria, ad acquisire l’americana Chrysler. La nascita di FCA rappresentò il primo passo del progressivo spostamento dei centri direzionali e delle attività ausiliarie verso gli Stati Uniti;
  • in seconda battuta, la costruzione del nuovo gruppo si accompagnò alla parificazione delle condizioni di sfruttamento da entrambi i lati dell’oceano. Proprio per questo, dopo aver corrotto i dirigenti del sindacato americano UAW per ottenere condizioni contrattuali di tutto favore, l’attenzione di Marchionne si spostò verso gli stabilimenti italiani con l’obiettivo di normalizzare la situazione sindacale azzerando le forme residue di dissenso: lo scontro con la FIOM, l’uscita da Federmeccanica e la firma del CCSL ne fu il risultato;
  • infine, la rivalutazione dell’immagine pubblica e del marketing di  FCA  – e quindi del valore azionario – non era orientata a mettere in atto un reale ritorno alla produzione di autovetture ma a cercare un’ulteriore fusione che si è poi realizzata  con il gruppo PSA nel 2021 dando vita a Stellantis.

Della consistenza attuale del gruppo abbiamo già detto ma non possiamo evitare qualche nota sull’attuale AD di Stellantis il  manager di origine portoghese Carlos Tavares. Il suo stipendio è di 64 mila euro al giorno cioè circa mille volte quello che guadagna mediamente un suo dipendente. Per dare un’idea di quanto si sia allargata la forbice dell’ingiustizia sociale nel tempo del liberismo rampante è sufficiente ricordare che Vittorio Valletta guadagnava venti volte più di un suo dipendente. Tavares è stato al centro delle cronache nazionali recenti per aver minacciato tagli negli organici di Mirafiori e Pomigliano in assenza di sostegni economici da parte del governo Meloni ma non si tratta di una novità poiché una delle sue abilità consiste nell’ottenere sussidi pubblici e nello spendere pochi soldi aziendali in reali investimenti. Nel settore è nota la sua particolare ossessione per il “taglio dei costi” che, tradotto dal linguaggio manageriale, vuol dire intensificare all’estremo i ritmi produttivi, ridurre al minimo il personale impiegato, aumentare i carichi produttivi e stritolare la catena di fornitura per aumentare i margini di competitività. Significa quindi sfruttamento cioè l’esercizio di una pressione continua sugli addetti e le macchine perché si aumenti la produttività. Ciò è tragicamente confermata dall’ennesima morte sul lavoro, quella del tecnico manutentore Domenico Fatigati avvenuta stamattina nello stabilimento di Pratola Serra. La pressione di cui parliamo è anche strettamente connessa con il clima di pesante autoritarismo in fabbrica volto a negare alla radice qualsiasi forma di contestazione e di auto-organizzazione dei lavoratori com’è testimoniato dai recentissimi licenziamenti politici di Delio Fantasia a Cassino e di  Francesca Felice alla Sevel di Atessa.

L’obiettivo di Stellantis è chiaro: giungere ad avere lavoratori rassegnati al comando di impresa e sindacati consociativi – come CGIL, CISL e UIL in Italia – affinché si possano garantire utili record e dividendi da sogno per gli azionisti. È anche chiaro che il quadro descritto, certamente inquietante, non ci deve indurre ad abbandonarsi al pessimismo ma a considerare che il percorso della lotta di classe non è mai lineare e che la fine dell’anno scorso si è chiuso con la sconfitta clamorosa di questo gigante multinazionale proprio nel paese centrale del capitalismo mondiale cioè gli Stati Uniti. Dopo anni di collusione dei vertici sindacali e di scarso attivismo operaio, gli operai statunitensi sono stati in grado di bloccare per oltre un mese e mezzo, in progressione, i maggiori stabilimenti non solo di Stellantis, ma anche di GM e di Ford. Una lotta che si è conclusa con aumenti salariali record e con la dimostrazione effettiva che la lotta paga e che l’unità e la solidarietà tra i lavoratori sono le armi più potenti di cui disponiamo. Armi che, a fronte di imprese transnazionali della taglia di Stellantis, richiedono anche la capacità di imparare dall’esperienza altrui e lo sforzo di costruire alleanze e solidarietà in grado superare i confini per evitare la continua corsa alle delocalizzazioni e la conseguente pressione salariale e normativa al ribasso.

Credo di aver parlato fin troppo e passo quindi a presentare i nostri quattro ospiti cui spetterà il compito di approfondire i temi che ho trattato. Sono con noi stasera 

  • Delio Fantasia, operaio e segretario provinciale della FLMU-CUB di Cassino che come ho già detto è stato oggetto nelle settimane scorse di un licenziamento politico;
  • Giordano Spoltore, operaio Stellantis di Atessa e coordinatore provinciale Slai Cobas di Chieti;
  • Dionisio Masella, membro del Centro Studio milanese della CUB e storico delegato dell’Alfa Romeo di Arese;
  • Carlo Pariani, responsabile della sede Cub di Legnano, ex delegato dell’Alfa Romeo di Arese e autore di un importante testo che racconta le vicende che abbiamo richiamato in precedenza.