PER UN PROGRAMMA FEMMINISTA NEI LUOGHI DI LAVORO E NELLA SOCIETA'
VERSO L'8 MARZO
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INTRODUZIONE EVENTO 6 MARZO ORE 16.30
Ciò su cui vorremmo riflettere e dibattere in questa occasione è che la dicotomia tra la lotta per i diritti nel lavoro, e di conseguenza in ogni ambito della società, e la lotta per i diritti delle donne sono un tema cruciale che richiede una riflessione approfondita.
Tradizionalmente, le organizzazioni politiche e sindacali – salvo alcuni rari casi – hanno mostrato scarso interesse per le tematiche relative alle contraddizioni di genere. E’ importante sottolineare, invece, quanto oggi sia sempre più necessario lavorare in direzione di una effettiva compenetrazione tra il movimento dei lavoratori ed i settori più avanzati del movimento femminista, per lanciare una sfida radicale.
Alla domanda: “Prima la classe?”, noi dobbiamo rispondere con un deciso: “NO!” Quest’affermazione, per certi versi provocatoria, sottolinea che la lotta per i diritti delle donne lavoratrici non può essere considerata come un capitolo secondario rispetto alle problematiche che affrontiamo tutti i giorni sui luoghi di lavoro, nella politica e nella società. La discriminazione di genere e l’oppressione delle donne sono, infatti, questioni intrinsecamente legate alla struttura sociale data ed all’organizzazione capitalistica del lavoro.
Per questi motivi, la lotta per i diritti delle donne non deve essere considerata una questione separata dalla lotta sindacale, ma piuttosto un componente essenziale di essa. Dobbiamo ribadirlo con forza, le donne sono parte integrante del proletariato e sono spesso esposte a forme specifiche di sfruttamento e discriminazione. Pertanto, affrontare le disuguaglianze di genere significa anche affrontare le disuguaglianze di classe e viceversa.
Discutere di entrambi questi aspetti è essenziale per una vera emancipazione. Significa riconoscere che le lotte per i diritti delle donne e per l’emancipazione di classe sono interconnesse e si rafforzano reciprocamente.
Pertanto, una vera lotta per l’emancipazione richiede un approccio che tenga conto delle intersezioni tanto di classe quanto di genere. A questo proposito, un ulteriore richiamo che dobbiamo fare – e che varrà la pena approfondire nel dibattito – è relativo alla condizione particolare delle donne immigrate che, il più delle volte, subiscono contemporaneamente tutte e tre le forme di discriminazione: di classe, di razza e di genere.
Seguendo, però, una prospettiva storica, possiamo sicuramente affermare che l’accesso al lavoro salariato rappresenta un crocevia per le donne, dove si scontrano potenziali opportunità di emancipazione e reali forme di oppressione. Questo aspetto, sia chiaro, va oltre il mero guadagno economico, poiché influisce profondamente sulla loro autonomia, dignità e benessere complessivo.
Da un lato, l’ingresso nel mondo del lavoro retribuito potrebbe rappresentare un importante strumento di emancipazione. In linea teorica, infatti, l’aver accesso ad un posto di lavoro dovrebbe offrire la possibilità di contribuire attivamente all’economia familiare e di raggiungere una maggiore indipendenza economica e sociale. Inoltre, potrebbe favorire la realizzazione personale e professionale, consentendo di sviluppare competenze ed ambizioni personali.
Dall’altro lato, però, l’accesso al lavoro salariato significa l’ingresso in situazioni di sfruttamento e oppressione. Le donne possono trovarsi coinvolte in lavori precari, mal retribuiti e privi di sicurezza sociale, con condizioni di lavoro spesso disumane. Questa realtà riflette le profonde disuguaglianze strutturali presenti nel mercato del lavoro, che colpiscono non casualmente ed in modo particolarmente odioso le donne immigrate. Pensiamo per esempio a chi svolge le attività di pulizia delle camere degli hotel, in stragrande maggioranza donne immigrate, a cui viene imposta una modalità lavorativa che ricalca il cottimo integrale.
Oppure, alla pratica del “minutaggio” largamente praticato nel settore socio-sanitario con cui lavoratrici – anche in questo caso quasi sempre immigrate – vengono letteralmente cronometrate per stabilire quanto tempo possono dedicare all’assistenza di pazienti anziani, degenti o con particolari disabilità fisiche o mentali.
Inoltre, l’ingresso nel lavoro retribuito non significa necessariamente una diminuzione del carico di lavoro domestico e delle responsabilità familiari per le donne (il cosiddetto “lavoro riproduttivo”). Molte donne si trovano a dover affrontare il fenomeno del “doppio lavoro”, ovvero la gestione sia delle responsabilità lavorative che di quelle domestiche. Questo può portare a un esaurimento fisico e mentale, e a una mancanza di tempo e risorse per il proprio benessere e sviluppo personale.
Dunque, mentre l’accesso al lavoro salariato può offrire alle donne opportunità teoriche di emancipazione e autodeterminazione, è importante riconoscere i rischi reali e le sfide che comporta. Affrontare queste sfide richiede un impegno congiunto per garantire condizioni di lavoro dignitose, parità di retribuzione, sostegno per la conciliazione lavoro-famiglia e politiche pubbliche che promuovano l’uguaglianza di genere in tutti gli ambiti della società (con forti investimenti a favore di un welfare realmente gratuito e universalistico). Solo così si potrà iniziare veramente realizzare il potenziale liberatorio della partecipazione alla vita produttiva per le donne.
Le molestie sul luogo di lavoro, poi, sono un altro dei problemi che differenziano la condizione femminile da quella maschile.
Sebbene le leggi e le politiche aziendali abbiano compiuto progressi nel riconoscere e affrontare questo problema, le lavoratrici continuano ad essere vittime di discriminazione, molestie e violenza sul posto di lavoro. Questo evidenzia una nuova dimensione di un problema che persiste, mettendo a rischio il benessere, la sicurezza e la dignità delle donne – in ambito lavorativo e non solo.
Le molestie sul luogo di lavoro possono assumere molte forme, tra cui commenti sessisti, molestie verbali, molestie sessuali, intimidazioni, e persino violenze fisiche. Ma è una vera e propria molestia, secondo noi, anche la minaccia di non vedersi prorogato un contratto nel caso in cui fruiscano della maternità, oppure il far pesare psicologicamente la necessità di dover ricorrere a permessi personali o all’istituto della malattia per esercitare gli obblighi di cura verso i propri figli. Questi comportamenti non solo danneggiano le singole vittime, ma crea anche un clima tossico e poco sicuro per tutte le lavoratrici, minando la fiducia e la sicurezza sul posto di lavoro.
Ci troviamo qui davanti a un problema ben più ampio rispetto al solo tema del lavoro, perche´ la violenza sessuale e` sistematica e propria di un impianto culturale radicato nel dominio di genere, che trova una giustificazione indiretta in un sistema che fa della mercificazione di ogni aspetto della vita umana il suo principio di fondo.
Se a quest’ultimo aspetto, aggiungessimo anche le politiche dei Governi e degli Stati che, sempre più spesso, cercano di ostacolare con scappatoie giuridiche e falsi pretesti alcuni diritti essenziali come quello all’aborto ci possiamo rendere conto di come l’attacco ai diritti delle donne provenga, in prima battuta, direttamente dai vertici sociali impregnati di una cultura maschilista e sessista.
E a tal proposito, il femminismo liberale, così tanto sponsorizzato sui media, che enfatizza il successo individuale delle donne nell’ambito della leadership e del potere, solleva interrogativi a dir poco critici. Infatti, la retorica “del farsi avanti” o “dell’occupare con quote rosa i consigli di amministrazione” serve in realtà a nascondere un vero e proprio disinteresse – delle femministe borghesi e tipicamente di carnagione bianca – per le sorti delle milioni di donne di tutte le nazionalità schiacciate da sfruttamento, guerre e miseria. Chi se no, potrebbe occuparsi di pulire le loro case o di badare ai loro figli (tante volte senza neanche un “regolare” contratto di lavoro) mentre loro sono ad occupare un posto lautamente retribuito al servizio del capitale? Contro questo “femminismo borghese” che punta sulla differenza, noi dobbiamo saper proporre un “femminismo di classe” che punti sulla costruzione di una unità con tutti quei soggetti – al di là del colore della pelle e del sesso o del genere in cui si riconoscono – che subiscono forme di oppressione e di vessazione. Per questo motivo, la vera emancipazione richiede una lotta sistemica contro le disuguaglianze di genere, di classe e di razza.
Questa prospettiva, che nel nostro contesto nazionale fatica ancora a realizzarsi, è sicuramente quanto di meglio è stato prodotto dalle manifestazioni internazionali che, da diversi anni, l’8 Marzo attraversano, con dimensioni oceaniche, moltissimi paesi – non a caso, per quella data la CUB, a differenza delle organizzazioni confederali, ha sempre accolto la richiesta di indire una giornata di Sciopero Generale. L’aver compreso il nesso inscindibile tra patriarcato-violenza di genere e sfruttamento capitalistico, non semplicemente sul piano teorico, ma su quello della mobilitazione unitaria, può veramente, a nostro avviso, rappresentare il cambio di passo necessario per promuovere una più incisiva partecipazione delle donne lavoratrici e proletarie (autoctone o immigrate) alla vita interna delle organizzazioni dei lavoratori. Sovvertendo, perché no?, anche pratiche di chiusura burocratica e derive verticistiche che tante volte connotano la pigra vita interna dei partiti e dei sindacati più o meno combattivi.
A questo punto, dobbiamo dire qualcosa anche su quanto sta avvenendo in Italia.
Nella conferenza stampa di inizio anno, Giorgia Meloni ha sottolineato l’importanza di non dover scegliere tra carriera e famiglia, e ha espresso la necessità di creare strumenti di supporto per le madri lavoratrici. Ha detto: “Voglio smontare il racconto che se metti al mondo un figlio ti precludi delle possibilità. La maternità non è nemica di altre possibilità”. Con la Legge di Bilancio il governo Meloni ha introdotto un piccolo aiuto – uno o due mesi (a seconda dei casi) di maternità facoltativa pagata all’80%. Questa misura, però, non è nemmeno lontanamente sufficiente – e soprattutto non possiamo sorvolare sull’ottica conservatrice di incentivo alla riproduzione, una visione anacronistica e patriarcale che lega il valore e la completezza della vita della donna alla maternita`.
Gli svantaggi associati ai part-time involontari colpiscono in misura maggiore le lavoratrici rispetto ai lavoratori, e questo fenomeno rappresenta un aspetto critico della disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro. Secondo l’ISTAT circa il 24% delle donne lavoratrici è a part-time, gli uomini tra il 6 e il 10%. I part-time vengono spesso presentati come uno strumento per conciliare vita e lavoro, ma la realtà è ben diversa. Le clausole di flessibilità, spesso utilizzate soprattutto nel settore del commercio e dei servizi in generale, con cui le aziende possono variare a loro piacimento gli orari di lavoro, si trasformano in una sorta di schiavitù moderna, con cui le vite dei lavoratori vengono consegnate alle esigenze di produttività delle aziende.
I part-time, venduti come soluzione, spesso costringono le lavoratrici a sottostare a orari irregolari e instabili, rendendo difficile la pianificazione della vita familiare e personale.
La nostra richiesta di garantire un minimo di 24 ore settimanali nei contratti part-time e l’abolizione delle clausole flessibili, deriva proprio dalla consapevolezza di questa realtà. Tale requisito mira a fornire alle lavoratrici una certa stabilità economica e un maggiore controllo sui propri orari lavorativi. Senza un’adeguata quantità di ore garantite, le lavoratrici possono trovarsi costrette a vivere con un’insicurezza finanziaria costante, a dover affrontare difficoltà nell’accesso a servizi sociali e a subire un aumento dello stress e della precarietà.
È fondamentale che le politiche lavorative e le negoziazioni sindacali tengano conto di queste realtà e promuovano misure volte a ridurre la vulnerabilità delle lavoratrici, garantendo condizioni di lavoro dignitose e un reale equilibrio tra vita professionale e personale. Solo così sarà possibile affrontare efficacemente la disparità di genere nel mondo del lavoro e promuovere una società più equa e inclusiva per tutti.
Quindi, avendo brevemente analizzato i principali problemi di genere nei luoghi di lavoro, dobbiamo provare a pensare al che fare.
Come CUB crediamo che sia necessario articolare una proposta di un nuovo modello di sviluppo economico, basato sulla solidarietà e sulla riconversione ecologica della produzione.
Le risorse necessarie ci sono, e vanno trovate nelle grandissime ricchezze accumulate in questi anni segnati dalla precarizzazione del lavoro e dall’ampliamento delle diseguaglianze.
Serve arrestare il declino salariale reintroducendo una scala mobile, rivendicando aumenti salariali di 300 € e l’introduzione di un salario minimo di 12 € l’ora, oltre che la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario.
Bisogna contrastare il lavoro e le lavorazioni povere, tramite una programmazione economica attiva da parte dello Stato, che sappia arrestare il declino industriale, tutelando i settori strategici della nostra economica, ri-nazionalizzando le imprese fondamentali per il nostro tessuto produttivo; bisogna inoltre tutelare i beni comuni rivendicando una sanità universale e pubblica, finanziando l’istruzione, ampliando l’offerta di edilizia pubblica, sviluppando un trasporto pubblico efficiente e a basso prezzo.
Infine, serve ridare slancio al protagonismo dei lavoratori, con una Legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia dei contratti collettivi, per riportare la democrazia nei luoghi di lavoro, consentendo ai lavoratori di eleggere liberamente da chi essere rappresentati nelle trattative.
E’ in questo contesto che noi dobbiamo essere in grado di sviluppare anche una proposta rivendicativa che sappia contrastare le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro e nella società, per questo avanziamo alcune semplici proposte che chiediamo anche di discutere alle nostre relatrici.
C’è un’effettiva discriminazione salariale: quest’ultima dipende anche da un minore accesso a posizioni di potere, è vero, ma la reale causa di questo gap è dovuta alla necessità per le lavoratrici di dover fare ben spesso ricorso a istituti come la maternità, i congedi e la malattia per far fronte al lavoro di cura famigliare. Questi istituti non sono sempre pagati al 100%, come i congedi che prevedono solo il 30% dello stipendio, così come la malattia che negli ultimi decenni è stata falcidiata nei rinnovi contrattuali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali confederali, con alcune situazioni gravissime in cui lo stipendio non viene neanche più riconosciuto.
Per questo crediamo che sia necessario che maternità, congedi parentali e malattia debbano essere istituti sempre retribuiti al 100% e che i congedi parentali debbano essere in misura eguale estesi anche ai lavoratori padri, in modo da equiparare il lavoro di cura nella coppia.
Le clausole flessibili e i part-time involontari rendono la vita impossibile a tutti, ma a maggior ragione a chi ha anche del lavoro di cura. Come CUB crediamo che i contratti part time non debbano mai essere inferiori alle 24 ore settimanali – salvo casi eccezionali verificati presso gli ispettorati del lavoro e tramite l’assistenza dei delegati sindacali – e che le clausole flessibili debbano essere totalmente abolite.
Secondo alcuni studi, circa il 70% delle donne tra i 15 e i 25 anni soffre di dismenorrea, percentuali che tendono poi a decrescere con l’età, assestandosi intorno al 25%. E’ necessario che anche in Italia, come già avvenuto in Spagna, si inizi a discutere di CONGEDO MESTRUALE. Il congedo mestruale non assicura un privilegio ma offre piuttosto una copertura di cui è possibile avvalersi quando se ne ha bisogno.
Gli enti per la parità di genere, ad oggi, hanno solo funzioni consultive e nessun potere sanzionatorio. E’ necessario costituire apposite sezioni per la parità di genere all’interno degli ispettorati e delle ATS, in modo da poter monitorare ed intervenire efficacemente a fronte di situazioni di sfruttamento.
Crediamo che questo potrebbe essere un programma rivendicativo minimo sui cui far convergere le iniziative di movimento e sindacali.
Oggi abbiamo quindi organizzato questo momento di dibattito perché vogliamo evitare di dare al prossimo 8 marzo una caratterizzazione rituale, ma vorremmo invece approfondire con le nostre relatrici il perché dell’importanza di questa giornata, le motivazioni che ci portano a mobilitarci e le possibili convergenze su cui cercare di costruire una maggiore unità d’iniziativa futura.