Il 18 sciopera il settore auto

La produzione di auto in Italia è in caduta libera quest’anno ma calava significativamente da anni tra l’indifferenza generale.

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La produzione di auto in Italia è in caduta libera quest’anno ma calava significativamente da anni tra l’indifferenza generale. Invece di capire cosa stava succedendo, tutti si sono nascosti dietro i salvatori di turno – Romiti, Marchionne e ultimamente Tavares – e trascurato le ragioni vere della crisi.

C’è una abbondanza di ragioni per fare sciopero il 18 ma anche per organizzare una lotta che non può essere di una sola giornata, se la si vuol fare vincente.

Tavares parla chiaro e tutti siamo chiamati a rispondere alla dura realtà.

Stellantis rivendica il diritto come impresa di produrre laddove costa meno per aumentare i profitti ma questo lo dicevano anche Fiat e FCA e nessuno aveva battuto ciglio; dice inoltre che il mercato dell’auto langue, la conversione all’elettrico costa, si può produrre di più a patto che gli acquisti vengano sostenuti con gli incentivi pubblici, perché gli acquirenti hanno pochi soldi. In sostanza: voi ci chiedete un milione di auto, noi chiediamo un milione di clienti.

Va innanzitutto ricordato che il passaggio all’elettrico in questa vicenda c’entra poco, perché il mercato langue anche per le auto tradizionali per altre ragioni:

  • dal 2003 al 2023 i prezzi delle auto nuove sono raddoppiati (+99%), a fronte di un aumento dei redditi del 22%.
  • dal 2019 al 2023, il prezzo di un’auto è cresciuto del 33% mentre i salari diminuivano anche perché erosi dall’inflazione.

La politica dei prezzi e dei salari ( -3% tra il ‘93 e il 2022) praticata per garantire profitti anche vendendo meno, ora si ritorce contro le stesse aziende, ma intanto ha impoverito i lavoratori e reso ricchi i padroni (di solito all’estero).

 

Stellantis ci dice con chiarezza che l’essenza del mercato, che guida l’economia da 40 anni, prevede che il lavoro sia pagato sempre meno, che le imprese siano libere e facciano politica economica nel paese al posto dei governi e che i profitti delle imprese debbono essere tutelati dallo stato attraverso spesa pubblica e incentivi.

Il disastro industriale è figlio diretto dell’affermarsi del mercato come centro della politica economica con l’abbandono di indirizzi di politica industriale.

Sono state smantellate le capacità produttive nazionali, privatizzate le aziende pubbliche, mentre multinazionali e i fondi Usa spadroneggiano (dal credito, alle tlc fino al calcio) acquistano, spremono e scappano.

In più la precarizzazione del mercato del lavoro e la progressiva terziarizzazione – si chiudono le fabbriche e si aprono bar – contribuiscono alla stagnazione dei salari, che fa ridurre i consumi. La vera emergenza è quella salariale che se non affrontata in tempo e in tutta la sua portata diventerà anche crisi sociale con effetti dirompenti e imprevedibili.

La piattaforma da costruire, dopo lo sciopero del 18, che dovrà coinvolgere tutti i lavoratori e non solo quelli del settore e dovrà essere chiara e precisa:

Bisogna sostenere i consumi dei lavoratori aumentando i salari rinnovando i contratti con aumenti veri, aumentando le pensioni, aumentando il reddito ai disoccupati e a chi è in condizione di disagio sociale.

Nessuno è mai riuscito a consumare senza avere soldi, se non rubando.

Bisogna uscire dalla supremazia del mercato, ripristinando il diritto dei paesi a determinare  la politica economica e a proporre politiche industriali per realizzarla, coerenti con gli interessi generali e dei lavoratori.

Bisogna uscire dalla guerra e reinventare una politica europea autonoma con investimenti nei settori della transizione verde e sostegno alla domanda

Bisogna potenziare i servizi pubblici. Siamo ad un bivio e dobbiamo decidere se assecondare l’abbandono dell’automotive o se da questa crisi ripartiamo per affrontare i problemi veri rilanciando il ruolo progettuale dei lavoratori.

La grande questione dei salari dominò gli anni Settanta, consentì al Paese di ridurre le disuguaglianze, affermare i diritti dei lavoratori e dimostrare, che le lotte e la centralità della fabbrica erano un fattore di sviluppo economico.

L’attuale modello senza democrazia di in cui la rappresentanza dei lavoratori è diventata un monopolio delle segreterie dei confederali è un ostacolo alla costruzione del conflitto necessario.

L’esperienza che ci arriva dagli Stati Uniti – di ripresa delle lotte sindacali – e quella che ci consegna la storia del movimento operaio degli anni 60/80, ci fa dire che arriva il momento in cui è necessario cambiare musica e musicanti, politica e dirigenti che la rappresentano per difendersi efficacemente.

Se negli ultimi 40 anni i ricchi sono diventati di più e diventano più ricchi e i lavoratori sempre più poveri e il  welfare sempre più stravolto, ci saranno pure dei responsabili!

Ottobre, 2024

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