Controllare e disciplinare. Un apologo.

Articolo di Giovanna Lo Presti per Volere La Luna

Il nostro Paese sta scivolando verso un assetto sempre più autoritario. Ce lo confermano molte cose. Alcune arrivano all’opinione pubblica e destano la condanna di chi ha ancora un po’ di buon senso (un esempio per tutti: gli studenti pisani incastrati a tenaglia e poi manganellati dalla Polizia durante una manifestazione contro il massacro dei palestinesi nel febbraio scorso). Altre, sia perché colpiscono singoli individui sia perché non hanno una immediata dimensione pubblica, sia per la loro apparente poca rilevanza, si consumano ogni giorno nei luoghi di lavoro. L’istanza disciplinare si è fatta in questi anni sempre più forte. Muovere critiche al proprio datore di lavoro o alle condizioni in cui si lavora può mettere a rischio la prosecuzione del rapporto di lavoro, con la scusa che la critica compromette il “rapporto di fiducia” tra lavoratore e datore di lavoro. Va da sé che sto parlando di critiche verificabili e giustificate: nemmeno quelle sono accettabili, ai giorni nostri! Di quanto sia cresciuto l’atteggiamento sanzionatorio nel lavoro pubblico e privato non è semplice dire, per l’oggettiva difficoltà nel reperire i dati totali. Facendo riferimento al lavoro pubblico nel 2021 sono stati in totale 11.203 i provvedimenti disciplinari a carico dei dipendenti pubblici; nel 2019 è pervenuto un elevatissimo numero di comunicazioni che hanno dato avvio a 12.000 procedimenti disciplinari, rispetto ai 10.000 del 2018. Nel 2017, per andare indietro di qualche anno, i procedimenti avviati erano stai 8576; nel 2014, 6935 (le informazioni complete si trovano nel sito ministeriale). La tendenza è, evidentemente, alla crescita degli interventi disciplinari.

Sono passati quindici anni ed è ancora viva nella memoria la vicenda di Riccardo Antonini, il ferroviere che si era offerto come consulente gratuito per una delle famiglie delle vittime del disastro ferroviario di Viareggio del 2009. Venne licenziato «per aver rilasciato dichiarazioni lesive dell’immagine del Gruppo Ferrovie dello Stato», «per le pubbliche e ripetute ingiurie rivolte all’allora amministratore delegato della società» e perché si era «posto dichiaratamente come concreto antagonista della società da cui dipendeva». Il ricorso in Cassazione diede ragione all’azienda. Ma che legge è questa se non la barbara legge del più forte?

Abbiamo voluto ricordare la vicenda di Riccardo Antonini per introdurne un’altra, più ordinaria ma pur sempre ingiusta. Il fatto riguarda un operaio della Pirelli, Diego Bossi, dirigente sindacale impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori (troppo spesso messi dai sindacati “maggiormente rappresentativi” e talvolta accantonati da quegli stessi sindacati di base, in uno dei quali – l’Allca CUB – milita Diego). L’azienda gli ha contestato la presenza ingiustificata «fuori turno all’interno delle aree aziendali senza motivazione o preventiva autorizzazione». Leggendo questa contestazione viene da immaginare qualcuno che, con aria furtiva, si aggiri nottetempo nelle “aree aziendali” chissà per quali loschi motivi. Invece Diego era sì presente in azienda fuori orario di lavoro, ma per un motivo preciso e dichiarato a chi di dovere: un collega, affetto da una grave patologia invalidante, gli aveva chiesto di accompagnarlo, essere presente e assisterlo durante il colloquio con il medico competente. La Direzione era stata avvisata dallo stesso lavoratore della presenza del rappresentante sindacale e nulla ha obiettato il medico competente durante il colloquio. Non è l’entità della sanzione che qui si prende in considerazione ma il fatto che la sanzione abbia il chiaro intento di far pressione, di far sentire il fiato sul collo al rappresentante sindacale. Se non fosse così, l’azione di Diego, che ha accompagnato, fuori dal suo orario di servizio, un collega in difficoltà al colloquio con il medico competente si dovrebbe considerare meritoria.

Viviamo tempi in cui il moto degli eventi è troppo spesso regressivo. Le tante “memorie artificiali” non ci aiutano a imparare dal passato e a ricordare. Perciò, invece, è bene ostinarsi a ricordare e anche a prendersi la licenza di confrontare eventi di peso diverso ma analoghi. In questi giorni si ricorda il centenario della nascita di Danilo Dolci, un uomo che fu molte cose, un utopista poliedrico che negli anni Cinquanta, in un borgo remoto della poverissima Sicilia occidentale, si inventò lo “sciopero al contrario”. Con un centinaio di disoccupati mise mano a una impraticabile trazzera per risistemarla. Per questo fatto venne arrestato e condannato. Lo difese Piero Calamandrei, che pronunciò a sua difesa, nel Tribunale di Palermo una memorabile arringa. Come si possono condannare uomini che, per senso della comunità, fanno un lavoro che servirà a tutti? «Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?». Questo chiedeva Piero Calamandrei ai giudici e questo ci chiediamo oggi di fronte a un piccolo episodio di ordinaria ingiustizia come quello che ha colpito Diego. Il quale saprà bene come difendersi – e la prima vera difesa è rappresentata dai tanti compagni di lavoro che lo stimano. Gli altri, quelli che sanzionano, quelli che considerano ogni giusta protesta per la dignità nel proprio lavoro qualcosa contro cui intervenire con metodi da legulei o, peggio ancora con la forza, li compatiamo.

«È certo che in questa società compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli uomini che prendono le cose sul serio»: sono sempre parole di Calamandrei, la cui attualità è evidente. Da questa situazione c’è una sola via d’uscita: la lotta solidale per costruire una società giusta e umana.

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