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LOTTE OPERAIE E "RINASCITA" DEL SINDACALISMO CONFLITTUALE NEGLI STATI UNITI: QUALI LEZIONI TRARRE DALL'ESPERIENZA AMERICANA?

INTERVIENE PROF. BRUNO CARTOSIO

 relatore Bruno Cartosio (già professore di Storia dell’America del Nord all’università degli studi di Bergamo) – 13 Novembre 2023 ore 20.30
Introduce e modera: Natale Alfonso (CUB SUR)
Partecipano: Marco Meotto (Cub Sur Torino); Delio Fantasia (FLMU – CUB Cassino)
 

INTRODUZIONE:

Gli avvenimenti economici, politici e sociali negli Stati Uniti hanno assunto, almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, una valenza più ampia perché contengono elementi di una tendenza più generale sia per quanto riguarda le trasformazioni strutturali del sistema capitalistico sia per quanto riguarda la ripresa delle forme di contestazione e di resistenza. Per questo motivo, l’osservazione attenta di quanto avviene, al di là dell’Oceano, è sempre un’attività di particolare interesse per chi, come noi, ha l’ambizione di interpretare il presente per favorirne una trasformazione in senso più democratico, egualitario e progressivo.

Il punto di vista che, però, vorremmo adottare nell’analisi dei più recenti avvenimenti della storia statunitense, in questo nostro seminario, non è quello delle èlite politiche, militari o imprenditoriali – che, non a caso, va per la maggiore nella campagne di informazione – ma quello delle classi popolari statunitensi: dei lavoratori salariati (indigenti o immigrati), della popolazione afroamericana/latina e delle donne proletarie. Il punto di vista, cioè, degli esclusi da quel “sogno americano” su cui tanto insistono, anche alle nostre latitudini, politici, economisti e commentatori. In questo modo, vorremmo allontanarci anche da un mal compreso “anti-imperialismo” di facciata, sfortunatamente ancora abbastanza diffuso nella sinistra radicale italiana, che finisce per trasformarsi non solo in un banale “anti-americanismo” – abbandonando un punto di vista classista quando si discute della società statunitense – ma in un vero e proprio “coro da stadio” quando si cercano di analizzare i fatti più rilevanti nel campo della politica internazionale.

Per questi motivi, anche nel campo sindacale di cui facciamo parte, ai più sfugge l’importanza del crescente interesse per ricette socialiste nell’ambito del dibattito pubblico statunitense, legate non soltanto al fenomeno Bernie Sanders, ma anche all’affermarsi di forze politiche come i Democratic Socialists of America o all’irrompere del movimento Black Lives Matter, che lega in maniera molto stretta questione razziale e di classe.

A fronte di questa premessa, dunque, l’aspetto che vorremmo trattare questa sera con maggiore precisione – ed è proprio per questo motivo che abbiamo scelto come relatore il professor Cartosio – è relativo alla ripresa delle iniziative di lotta e di organizzazione dei lavoratori statunitensi che ci ha fatto assistere, negli anni scorsi, ad una “rinascita” delle Unions – con piattaforme sindacali fortemente rivendicative e con profili marcatamente conflittuali – in diversi luoghi di lavoro che venivano considerati sostanzialmente impossibili da sindacalizzare. Proprio nel paese celebrato come “campione del neo-liberismo” e dell’individualismo, sempre più lavoratori e lavoratrici stanno tornando a guardare il sindacato – come testimoniano i sempre più frequenti sondaggi di opinione – con rinnovata speranza come uno degli strumenti più adeguati per conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro. Tanto per fare degli esempi (che sicuramente potrà approfondire il nostro ospite), abbiamo appreso della stampa – nazione ed internazionale – della nascita di nuovi sindacati aziendali in Starbucks, Amazon, Apple, ecc… a cui si è associato un rilancio delle mobilitazioni in settori più “tradizionali” del mondo del lavoro – scuola, trasporti, industria, ecc… Sembra ormai evidente, infatti, che dopo decenni di diminuzione del tasso di sindacalizzazione nel settore privato – oggi intorno al 10% – stiano iniziando a coagularsi degli elementi di controtendenza sempre più robusti in grado di legare a sé, in forme parzialmente inedite, anche un rapporto con la razza ed il genere.

Un argomento che qui possiamo solo ricordare e che chiediamo magari al professor Cartosio di spiegare ai nostri ascoltatori è il peculiare processo di ingresso del sindacato statunitense in un luogo di lavoro: il tutto inizia con l’invio di una petizione firmata dai lavoratori (almeno il 30%) al National Labour Relactions Act e prosegue con l’organizzazione di un referendum tra le maestranze. Solo con il 50%+1 dei voti a favore, il sindacato conquista il diritto di entrare in azienda e di essere l’agente contrattuale con cui deve fare i conti il management. In questo periodo di tempo, le direzioni aziendali mettono in campo tutte le iniziative per scongiurarne l’ingresso (dai licenziamenti ritorsivi degli attivisti fino all’intervento di vere e proprie agenzie “anti-sindacali” con lo scopo di dissuadere i dipendenti dal voto favorevole). In questa procedura certamente contraddittoria, risiede però anche uno dei motivi che hanno reso particolarmente conflittuale, ma allo stesso tempo molto flessibile il sistema di relazioni industriali negli Stati Uniti, sospinto anche dallo sviluppo di teorie contrattualiste che hanno individuato nella contrattazione collettiva lo strumento attraverso il quale, in una società pluralistica caratterizzata da gruppi sociali con interessi diversi, la classe lavoratrice può esercitare una pressione per ottenere una sempre più larga partecipazione al potere sociale. Non fu un caso, infatti, che proprio gli anni del New Deal roosveltiano furono caratterizzati da livelli di scontro di classe e di violenza, pur rimanendo in una cornice politica liberale, superiori anche ai paesi dell’Europa Occidentale.  

Una breve postilla da ricordare ai nostri ascoltatori, è che in Italia non essendo mai stata approvata una legge sulla rappresentanza sindacale, al contrario degli Stati Uniti, non esistono criteri certi per misurare la reale rappresentatività delle sigle sindacali. Questo aspetto è ciò che consente oggi alle aziende di escludere sistematicamente dai tavoli di trattativa organizzazioni sindacali conflittuali come la nostra. Con l’avvio della “Concertazione sociale”, i diritti sindacali e di contrattazione sono diventati, di fatto, un monopolio di CGIL-CISL-UIL, incoronate come i “comparativamente più rappresentativi” solo perché firmatari di contratti nazionali in quanto ben disposte ad una maggiore accondiscendenza nei confronti delle richieste datoriali. Proprio questa “finta” contrattazione – dove gli agenti contrattuali non sono eletti dai lavoratori, ma decisi a tavolino dalle imprese – ha finito per introdurre sempre più precarietà nel mondo del lavoro e per spostare sempre più quote degli aumenti economici non nel salario dei dipendenti, ma nell’ingrassare enti bilaterali e fondi privati cogestiti da sindacati e imprese. Non a caso, il salario medio dei lavoratori in Italia è in drammatico crollo.

In questo quadro sia pur sommario, non può non occupare una menzione d’onore lo sciopero, iniziato nel mese di settembre, dai lavoratori dell’automotive contro le “3 grandi”: Ford, General Motors e Stellantis. Il valore simbolico di questa iniziativa dopo decenni di passività (se non di aperta collusione, ricordiamo a proposito il caso delle tangenti pagate da FCA ad alcuni tra i maggiori dirigenti della UAW per “facilitare” la negoziazione del rinnovo contrattuale), la capacità di articolare diverse forme di lotta a scacchiera per piegare la controparte e l’innovativa capacità di comunicazione dei leader della UAW – con Shawn Fain in testa – dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, come, lungi dall’essere scomparsa, la classe operaia può ancora esercitare il ruolo di soggetto attivo nei punti alti dello sviluppo capitalistico. L’inevitabile rivitalizzazione del sindacalismo conflittuale statunitense passerà sicuramente – ed è questa la nostra previsione – anche dal recupero di quella tradizione di industrial unionism che ha avuto, nella prima metà del Novecento, l’apice del suo successo e della sua forza.

Fatto questo inquadramento generale del tema di discussione, dobbiamo però chiederci anche cosa possiamo e dobbiamo imparare noi – sia come Confederazione Unitaria di Base sia come organizzazione che si muove nel campo del sindacalismo di base – da questi avvenimenti.

Cercando di essere più brevi possibili, possiamo dire che, a nostro avviso, ci sono tre elementi da valorizzare (andiamo per punti):

1) il riacquisto di fiducia e di interesse da parte dell’opinione pubblica statunitense nei riguardi del movimento sindacale è sicuramente legato alla richiesta di una prassi maggiormente conflittuale e marcatamente rivendicativa. Chiaramente esistono gruppi interni politicamente più coscienti, ma la capacità di coinvolgere quote sempre più rilevanti di lavoratori e lavoratrici passerà sicuramente da una chiarificazione sul ruolo e sulla funzione di una organizzazione sindacale in una società capitalistica;

2) il sindacalismo americano ha sempre rivendicato e praticato un principio di maggiore autonomia dal quadro istituzionale e padronale – rispetto ai suoi omologhi europei – che se nei momenti di scarsa conflittualità sociale ha finito per fargli assumere dei connotati “gialli”, al contrario, nei momenti di ripresa dell’iniziativa operaia lo ha politicizzato con maggiore vigore e con maggiore radicalità. Un processo del genere è ciò che sta avvenendo proprio in questi anni;

3) infine, come dimostrano le vicende recenti dell’UAW, questo processo di radicalizzazione nelle piattaforme e nella prassi rivendicativa si associa al ripristino di forme di democrazia nella vita interna dell’organizzazione in grado di valorizzare l’attivismo dei militanti e dei dirigenti più combattivi. Da un certo punto di vista, si assiste ad un progressivo ribaltamento della disciplina burocratica che connota – come tutti sappiamo – ogni forma di organizzazione anche nel campo del movimento operaio.

Per esplorare, con maggiore profondità, tutte le problematiche sollevate da questa nostra breve introduzione abbiamo deciso di chiedere un supporto al professor Bruno Cartosio che, per chi non lo conoscesse, è uno dei più importanti storici sociali degli Stati Uniti d’America nel nostro paese oltre che essere stato uno dei fondatori di un delle riviste critiche che ha fatto epoca nella storia della sinistra italiana ossia “Primo Maggio” – oggi rifondata sotto il nome di “Officina Primo Maggio”. Giusto per indicare altri due titoli del nostro ospite ricordiamo: 1) I lunghi anni Sessanta movimenti movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti edito da Feltrinelli nel 2012; 2) Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano edito da Derive Approdi nel 2020

Ad accompagnarci nella discussione di questa sera, come di consueto, abbiamo invitato anche due delegati della nostra organizzazione sindacale a cui chiederemo, da diversi punti di vista, un parere sulle mobilitazioni dei diversi settori della classe lavoratrice statunitense – dagli operai dell’automotive, passando per gli insegnanti fino ad arrivare agli sceneggiatori di Hollywood – e su quali siano gli elementi che possiamo “importare” alle nostre latitudini: Marco Meotto, che è un insegnante/delegato sindacale e Delio Fantasia, operaio della Stellantis. Detto questo, lasciamo la parola al professor Cartosio a cui poniamo alcune domande:

1) A suo modo di vedere, quali sono le principali novità nel panorama sindacale negli Stati Uniti almeno a partire dalla crisi del 2008?

2) In che modo, la ripresa dell’iniziativa di settori della classe lavoratrice (più o meno tradizionale) negli Stati Uniti si collega a movimenti sociali più ampi come il movimento femminista o al movimento afro-americano?

3) Ci hanno molto colpito le immagini di Biden e di Trump intenti a cercare, sia pure per motivi elettorali, una interlocuzione con settori del mondo del lavoro. In quali termini, viene rappresentato e guardato dal mondo politico statunitense il nuovo attivismo dei lavoratori?