L’inflazione trainata dai profitti

Nuovo Quotidiano di Puglia”, 23 giugno 2022

G. Forges Davanzati

Esiste in Italia una rilevante questione salariale, sulla quale si è recentemente espresso Visco, Governatore della Banca d’Italia, nelle sue considerazioni finali. Visco si è detto preoccupato per un ritorno dell’inflazione trainata dalla spirale prezzi-salari. Si tratta di un dispositivo all’opera negli anni Settanta, in base al quale gli incrementi dei prezzi derivanti da shock esogeni (in quella fase, l’aumento dei prezzo del petrolio) venivano automaticamente traslati in aumenti dei salari monetari, portando il tasso di inflazione quasi stabilmente intorno al 20% e oltre.

Vi sono due ragioni sostanziali per le quali il timore di Visco è del tutto infondato:

1) La gran parte dei contratti di lavoro o è scaduta o è stata rinnovata prima del ritorno dell’inflazione. Quasi nessuno di questi contratti, peraltro, prevede l’imposizione di incrementi retributivi qualora l’inflazione effettiva superi quella prevista al rinnovo. Più in particolare, il CNEL rileva che sono scaduti i contratti per oltre 7milioni e 700mila lavoratori, pari al 62% del totale. In più, sono molto diffusi i cosiddetti contratti pirata, sottoscritti da organizzazioni non rappresentative e che consentono alle imprese di competere al ribasso delle retribuzioni;

2) L’Italia è l’unico Paese europeo nel quale i salari reali sono diminuiti dal 1990: -2.9% a fronte del +33% della Germania, del 31% della Francia e del +6% della Spagna. Stando ai dati diffusi dalla Fondazione Di Vittorio, prima della pandemia circa 5 milioni di lavoratori avevano un salario medio effettivo inferiore ai 10mila euro annui, facendo registrare 3 milioni di precari, 2.7 milioni di part-time involontari e 2.3 milioni di disoccupati ufficiali. L’Italia è l’unico Paese in Europa, insieme a quelli scandinavi e all’Austria, a non avere un salario minimo legale. Non a caso, l’ISTAT trova che la dinamica del Pil italiano, negli anni più recenti, non è stata influenzata dalla crescita dei consumi, quasi sempre al palo.

E’ dunque impossibile sostenere che la ripresa dell’inflazione sia dovuta agli incrementi salariali ed è impossibile attendersi che ciò accada a breve. La ripresa dell’inflazione (+ 6.9% su base annua, secondo le stime preliminari dell’ISTAT) è semmai imputabile al combinato della strozzatura delle catene di approvvigionamento globali e della speculazione. Il mercato globale del cibo è infatti finanziarizzato. Il prezzo è fissato in borsa (la maggiore è quella di Chicago), dove oggetto di contrattazione sono i futures: il contratto fissa il prezzo per l’acquisto futuro. La ratio di questi contratti sta nel loro essere un’assicurazione contro rialzi imprevisti. Se tuttavia i beni vengono venduti prima che la transazione si compia, la differenza fra il prezzo fissato e quello che si determina nel mercato reale porta a realizzare un profitto che è del tutto indipendente dalla dinamica reale della domanda e dell’offerta.

In sostanza, sono gli alti profitti non gli alti salari a generare incrementi dei prezzi. A questa conclusione arriva un’importante ricerca di John Bivens dell’Economic Policy Institute, che ha confrontato i fattori che hanno guidato la crescita dei prezzi tra il 1979 e il 2020. Il rapporto fra il costo del lavoro per unità di prodotto e i profitti aziendali si è invertito a seguito del Covid, dimostrando empiricamente che la dinamica dei prezzi non è influenzata da quella dei salari.

Per quanto attiene alle prospettive, in assenza della volontà politica di fronteggiare la questione salariale in Italia (sono solo Sinistra italiana e Movimento 5 stelle a sostenere la proposta del salario minimo), la caduta dei salari reali non può che continuare. Infatti, le politiche monetarie e le politiche fiscali assumeranno – come annunciato – un segno restrittivo per far fronte all’impennata inflazionistica nell’Eurozona. L’aumento dei tassi di interesse BCE riduce gli investimenti, la domanda aggregata e l’occupazione, indebolendo ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori. Analogo effetto viene generato dalle politiche fiscali restrittive, che, secondo i Paesi frugali dell’eurozona, dovrebbero essere rapidamente ripristinate dopo la parentesi del Next generation UE. Vi è poi l’opposizione politica al salario minimo: essa deriva sia dalle imprese, timorose di minimi imposti per legge troppo alti, sia dai sindacati, timorosi che la legge possa ridurre il peso della contrattazione. Ma su quest’ultimo punto occorre un chiarimento. La recente esperienza tedesca mostra che i minimi salariali e la contrattazione non si escludono a vicenda. L’IG Metal, il principale sindacato tedesco, sta contrattando infatti incrementi retributivi nell’ordine dell’8.2% nel settore dell’acciaio, mentre il Governo annuncia l’intenzione di portare il salario minimo dagli attuali 9.82 euro orari ai 12 euro orari entro la fine dell’anno. L’Italia sconta a riguardo il duplice problema dell’assenza del salario minimo e del proliferare di contratti pirata, in attesa della legge sulla rappresentanza attesa ormai da decenni.