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PER IL RILANCIO DI UNA PIATTAFORMA AUTONOMA DEL MONDO DEL LAVORO

IL CAPITALISMO ITALIANO ALLA PROVA DEL P.N.R.R

NEXT GENERATION EU E P.N.R.R.: GENESI E SIGNIFICATO DELLA RISPOSTA EUROPEA ED ITALIANA ALLA CRISI SANITARIA ED ECONOMICA GLOBALE – Gabriele Pastrello (già docente di Economia Politica e Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste)

INTRODUZIONE:

Dopo aver subito i pesanti danni provocati dalla crisi pandemica internazionale è arrivato il momento che il movimento operaio riprenda la parola. Dopo un quarantennio di politiche neo-liberali, la consapevolezza dell’instabilità di un modello economico trainato dalla logica distruttiva del mercato, dalla privatizzazione dello stato sociale/beni comuni e dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro sembra essere iniziata a penetrare anche nelle preoccupazioni delle classi dominanti, le quali, però, possono offrire solamente delle risposte contraddittorie.

È all’interno di questo contesto socio-economico sempre più deteriorato, che le istituzioni europee sono state costrette a varare un consistente piano di aiuti mirato ad alcuni paesi (il cosiddetto “Next Generation Eu” del valore complessivo di circa 750 miliardi di euro) con lo scopo di riconquistare il consenso di ampie fasce della popolazione europea, in particolare in Spagna ed in Italia (i due paesi che, non a caso, beneficeranno maggiormente di questi trasferimenti di denaro), che da tempo mostravano segni preoccupanti di frustrazione e di malessere (le cui manifestazioni più recenti sono state prima la crescita elettorale di partiti estranei alla tradizionale dicotomia liberale centro destra-centro sinistra e poi l’uscita ufficiale della Gran Bretagna dall’Unione Europea).

A discapito di questa svolta sul piano sovranazionale, in questi ultimi decenni, pur in presenza di un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, bisogna segnalare come un sentimento di sfiducia sia penetrato tra le file di un mondo del lavoro italiano sempre più ingabbiato tra il moderatismo concertativo – per non dire l’aperta collusione dopo la firma del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 Gennaio 2014 – delle direzioni sindacali confederali, seguito in ordine di tempo anche da ampi settori del sindacalismo “di base” e “conflittuale”, con le controparti datoriali ed i pesanti processi di ristrutturazione produttiva che si sono implementati, sulla base dei principi del decentramento produttivo e della flessibilità.

In questo scenario, il padronato italiano, non contento della posizione di relativa forza acquisita, ha deciso di affidare i suoi destini ad un governo di “unità nazionale” guidato da Mario Draghi, ex presidente della BCE e da sempre ai vertici delle istituzioni finanziarie nazionali ed internazionali, che, fin dalle sue prime dichiarazioni, ha fatto capire come fosse arrivato il momento di imprimere una decisa svolta, del quadro politico ed istituzionale, a favore di quelle frazioni della borghesia italiana maggiormente integrate nel mercato europeo e mondiale (in particolar modo, le medie imprese “familiari” del quarto capitalismo che, senza alcun dubbio, costituiscono attualmente la componente più dinamica della Confindustria). Proprio per questo motivo, dopo aver temporaneamente archiviato i dogmi dell’austerità di bilancio (attraverso i quali, non ci dimentichiamo, venne stritolata l’economia greca), egli si è spinto a distinguere, in un suo famoso articolo apparso sul Financial Times, tra un “debito buono” ed uno “cattivo” mettendo in risalto come questo aggettivo non potesse non riferirsi alla salvaguardia di quelle imprese capitalistiche (industriali/bancarie/pubbliche/private) troppo grandi per fallire.

In questa fase emergenziale, dunque, è sembrata tornare alla ribalta, a livello continentale, la necessità di una politica fiscale espansiva che se da un lato ha avuto il merito di archiviare una parte dei dogmi Ordoliberali su cui si era edificata la struttura istituzionale dell’Unione Europea, dall’altro ha comunque preservato l’idea secondo la quale l’intervento dei pubblici poteri è chiamato non a favorire una redistribuzione più egualitaria del reddito tra le classi sociali, ma a coprire le perdite del settore privato ed a garantire migliori condizioni di accumulazione per i grandi gruppi capitalistici (non è casuale, infatti, che oggi ci troviamo di fronte non solo ad un attacco senza precedenti al diritto di sciopero, ma anche ad uno svilimento dei più elementari diritti formali di libertà).

Sulla base di questa consapevolezza, non deve stupirci che il significato originario del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” elaborato dal governo Draghi (del valore di circa 190/200 miliardi di euro da spendere tra il 2021 e il 2026) risiede nel tentativo di andare a razionalizzare la struttura produttiva italiana, in linea con le condizionalità dettate dalla Commissione Europea. Sulla base di questo, sono sempre più evidenti i motivi per i quali, negli anni a venire, andremo incontro ad un fase di imponenti ristrutturazioni, fusioni ed acquisizioni aziendali che modificheranno, sempre più in profondità, il panorama produttivo del capitalismo italiano (pur di velocizzare questo processo, per un certo periodo di tempo, anche gli strumenti di contenimento dei contagi – Green Pass – sono stati utilizzati con il fine di “terrorizzare” quei settori di lavoratori/trici meno propensi a piegarsi alle politiche repressive statali). L’esito definitivo di questi processi, non potrà non determinare, come già in passato, che, in alcuni casi, le imprese italiane perderanno posizioni all’interno delle Catene Globali del Valore (si pensi, a titolo di esempio, alle vicende Alitalia e GKN), in altri, invece, li conquisteranno. Certamente, ciò che difficilmente verrà messo in discussione è un assetto del capitalismo italiano “neo-mercantilista debole” dal momento che vede l’industria italiana posizionarsi, grazie a bassi salari ed ad una elevata precarietà del lavoro, in una posizione di subfornitura di componenti e di beni intermedi per l’economie centrali del continente europeo (Germania, in testa). Solo a partire da queste premesse analitiche, possiamo capire come mai, solo una piccola parte dei fondi europei assegnati al nostro paese, finirà, contrariamente alla retorica ufficiale, nel rafforzamento di quei servizi sociali pubblici (scuola, sanità, casa, ecc…) messi a dura prova dalla crisi pandemica. Anzi, in questi settori, non solo i confini del privato si allargheranno grazie ad una maggiore liberalizzazione, ma sempre di più tenderanno a replicare (per mezzo dei processi di esternalizzazione) forme organizzative reticolari tipiche del mondo industriale del Ventunesimo secolo.

Ad ogni modo, però, questa ingente iniezione di denaro, presa in prestito dai mercati finanziari, ci impone la necessità di tornare a riflettere collettivamente su quanto sta accadendo nel nostro paese e nel nostro continente. Chiaramente, il contesto politico, sindacale e sociale in cui stiamo tornando ad agire sarà influenzato anche dall’esito della “Crisi Ucraina”, terreno di scontro intorno al quale gli Stati Uniti e la Russia/Cina stanno provando a ridefinire gli equilibri mondiali (politici, economici ed istituzionali) usciti dalla fine della Guerra Fredda. In questo scenario, i problemi legati agli alti costi delle materie prime (energetiche o alimentari) ed alla disarticolazione delle catene di fornitura – che spingeranno ad una sempre maggiore regionalizzazione della produzione industriale mondiale imperniata su alcuni poli di dimensioni continentali – non potranno che peggiorare se questo conflitto militare dovesse assumere una dimensione territorialmente più vasta.

In ogni caso, gli aspetti fin qui ricordati, non possono portarci, però, a nascondere la nostra scommessa (politica) ossia che: il rilancio di un periodo di crescita economica, sia pur a scadenza e limitato da un probabile ritorno futuro di vincoli alla spesa pubblica – probabilmente meno stringenti di quelli applicati durante l’era di Maastricht -, finirà per produrre un migliore contesto per l’iniziativa sindacale e per le mobilitazioni del mondo del lavoro. È in questa “finestra di opportunità” che dobbiamo saperci muovere con anticipo per radicare l’azione della nostra organizzazione e per sottrarre sempre maggiori quote di lavoratori/trici tanto all’arrendevolezza di CGIL-CISL-UIL quanto a quei mestieranti sindacali che cercano di barattare l’agibilità sui luoghi di lavoro con qualche tessera o qualche diritto sindacale in più. Questa necessità si rivelerà tanto più impellente quanto più la situazione economica generale tenderà a perdere slancio in conseguenza di una maggiore contrapposizione tra le grandi potenze mondiali.

Comunque sia, da questo punto di vista, i segnali di questo ultimo anno e mezzo sono stati incoraggianti dal momento che l’arroganza del Governo Draghi ha trovato, forse per la prima volta, una risposta dei settori politicamente più coscienti del mondo del lavoro – anche al di fuori del tradizionale controllo esercitato dalla “triplice sindacale” e dai partiti liberali di centro-sinistra. Si tratta ora di alimentare queste fiammelle ed accenderne altre, in modo che, alla fine, si incendi tutta la prateria.

Per concludere, al fine di discutere quale ruolo può assumere la nostra organizzazione in questa diversa fase, abbiamo deciso di organizzazione questa giornata seminariale dal titolo: “IL CAPITALISMO ITALIANO ALLA PROVA DEL P.N.R.R.: PER IL RILANCIO DI UNA PIATTAFORMA AUTONOMA DEL MONDO DEL LAVORO”. A questo appuntamento, ci è sembrato naturale invitare il prof. Gabriele Pastrello a cui riconosciamo non solo un indiscutibile valore di studioso vicino alle esigenze del mondo del lavoro, ma anche una precisione nell’analisi economica che ha ben pochi paragoni nel nostro paese.

Il programma di oggi, partirà dall’intervento del nostro ospite, che ha l’ambizione di coprire una vasta gamma di questioni, a cui seguirà il dibattito. L’intento di fondo è quello di fornire ai simpatizzanti, ai delegati, agli operatori ed ai dirigenti sindacali della nostra organizzazione un quadro di analisi generale, che poi dovrà essere sviluppato, in maniera più specifica, su ogni territorio con il fine di accompagnare una generale ripresa del conflitto di classe che, a nostro avviso, rimane l’unico strumento per impedire che questa montagna di miliardi di euro venga o dispersa nel mettere una toppa ai disastri prodotti da un capitalismo italiano sempre più in affanno sul mercato mondiale oppure utilizzata nell’esclusivo interesse dei grandi gruppi capitalistici dominati (pubblici e privati o industriali e bancari).