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LA POLITICA ECONOMICA DEL GOVERNO MELONI: LEGGE FINANZIARIA, VINCOLI EUROPEI E RITORNO ALL’AUSTERITÀ

INTERVIENE PROF. ROBERTO ARTONI

 

Da diversi anni abbiamo cercato di avviare un dibattito approfondito sui  contenuti delle manovre di politica economica dei diversi Governi che si sono succeduti (a partire dal Conte I e II e Draghi), cercando di porle in stretta relazione con le dinamiche socio-politiche continentali ed internazionali. In particolare, abbiamo provato ad esplorare le luci e le ombre della strategia europea di uscita dalla crisi pandemica internazionale con alcune giornate di discussione dedicate, tra il 2021 e il 2022, sia al “Next Generation Eu”  sia al PNRR.

 

La nostra analisi, però, si era fermata all’alba dell’invasione russa in Ucraina, con la consapevolezza che quell’evento non solo avrebbe modificato lo scenario internazionale, ma avrebbe avuto delle pesanti ricadute economiche anche sul piano della politica interna (sia pure per il solo aumento esponenziale dei prezzi delle materie prime). In un batter d’occhio, infatti, il Governo Draghi si trovava ad affrontare la sua crisi più dura, affondando sotto i colpi incrociati dei partiti di maggioranza particolarmente interessati a garantirsi una sopravvivenza elettorale.

Ci sembra corretto poter affermare che il Governo Draghi abbia sostanzialmente fallito due dei tre obiettivi che si proponeva: se da un lato è riuscito – in maniera particolarmente autoritaria – a gestire la campagna vaccinale, dall’altro non è stato in grado né di ricostruire un “grande centro politico liberale” intorno alla sua figura (con la benedizione dell’élite euro-atlantiche), né a “mettere a terra” un credibile piano di investimenti pubblici – il cosiddetto PNRR – in grado di far superare all’economia italiana le sue antiche tare allo sviluppo. Per questi motivi, non ci siamo stupiti che dalla successiva competizione elettorale sia risultata vincitrice la coalizione di centro-destra con a capo Giorgia Meloni, l’unica esponente della politica istituzionale che aveva formalmente esercitato la funzione di oppositrice all’ex presidente dalla BCE.

Se per un primissimo momento si era fantasticato su possibili scenari apocalittici provocati dall’elezione di un governo autenticamente sovranista, sono bastati pochi mesi per capire come in realtà anche l’esecutivo Meloni si sarebbe mosso in relativa continuità con quello del suo predecessore. Non stiamo parlando solo della sudditanza alle linee di politica estera decise dalla Casa Bianca: anche in tema di politica economica, l’impianto di fondo predisposto dal Governo Draghi non è stato particolarmente stravolto, seppur fin dai primi atti si è potuta riscontrare una maggiore attenzione (in termini di trasferimenti monetari, bonus e mancette varie) ai settori più parassitari della piccola e media borghesia italiana, prevalentemente collocati nelle regioni settentrionali del paese – che sono l’effettiva base di consenso elettorale di gran parte di questo esecutivo. Basti pensare all’innalzamento della soglia limite fino agli 85 mila euro per le P. IVA per godere dell’aliquota fiscale del 15%.

Questo e`ulteriormente evidente anche dai contenuti della legge di bilancio 2024 – su cui magari chiederemo al Professor Artoni di entrare nello specifico – che in un volantino abbiamo infatti definito “una legge senza prospettive”,  in quanto a fronte dei 24 miliardi di euro del valore complessivo della manovra (14 in deficit), il Governo ha deciso di risparmiare 2,7 miliardi sulle pensioni e 6,7 miliardi sulle politiche del lavoro. L’unico investimento reale previsto riguarda i fondi per costruire il Ponte sullo stretto di Messina. In aggiunta, alla conferma dello sgravio parziale sui contributi previdenziali fino a 35.000 €, solo per il 2024, si è aggiunto un peggioramento sulle pensioni specie su Quota 103 e Opzione Donna.

In sostanza, dunque, la logica di fondo di questa manovra finanziaria appare sempre la stessa: di fronte all’inflazione galoppante, per aumentare i salari e le pensioni sembra che bastino piccoli sgravi fiscali e contributivi a carico della finanza pubblica, senza andare a toccare i profitti delle aziende o le grandi ricchezze!

Se a questo orientamento di politica economica aggiungiamo anche il varo del Decreto Lavoro, possiamo ben capire verso quali gruppi sociali si rivolgono le attenzioni e la protezioni anche di questo Governo.

Proprio le misure sul campo del lavoro sono state quelle più allarmanti:

– sono stati allentati i già timidi vincoli all’utilizzo di alcune tipologie di contratti precari che aveva posto il precedente Decreto Dignità;

– è stato decapitato il Reddito di Cittadinanza, che noi avevamo sì criticato, perché caratterizzato da una erogazione economica piuttosto modesta e quindi incapace di intervenire in maniera strutturale sulle reali condizioni di povertàdi migliaia di disoccupati e lavoratori precari, ma che era comunque riuscito, seppur in misura parziale, a ridurre i margini di ricattabilità datoriale in alcuni settori, a partire dal turismo nei periodi stagionali.

– Infine, l’esecutivo si è apertamente schierato contro l’introduzione del salario minimo e una legge realmente democratica sulla rappresentanza sindacale e l’efficacia della contrattazione collettiva, elemento che avrebbe messo alle strette sia i sindacati “pirata” che il monopolio consociativo garantito a CGIL-CISL-UIL.

A ogni modo, la situazione economica del nostro paese potrebbe essere ulteriormente aggravata, nel prossimo futuro, dall’azione di altri due fattori:

1) in primo luogo, il mantenimento di politiche monetarie restrittive a livello europeo, con il fine di riportare il livello dell’inflazione sotto al 2%, sta rischiando di indurre una recessione, più o meno prolungata, a livello continentale. Ricordiamo però che l’inflazione europea non è da domanda, ma è legata, per larga parte, all’importazione di prodotti energetici;

2) il ritorno nel 2024 dei rigidi vincoli alla spesa pubblica imposti dal nuovo Patto di Stabilità che ricopia quelli pre-pandemici sanciti nel Trattato di Maastricht, con piani di rientro leggermente più dilazionati nel tempo.

Il combinato disposto tra una legge di bilancio che torna a garantire un avanzo primario dell’0,6% e riforme del lavoro ancorate a principi liberistici e scelte europee ispirate al ritorno della rigida austerità teutonica, sembrano chiudere definitivamente lo spazio anche a possibili riforme dall’alto, guidate dai settori più consapevoli delle èlite europee e finalizzate a cercare di frenare la marginalizzazione economica del Vecchio Continente nello scontro sul mercato mondiale tra Stati Uniti e Cina.

A fronte di questo scenario, cosa dobbiamo provare a fare come organizzazione sindacale di base?

Intanto, l’attacco ai salari, alle pensioni e ai diritti della classe lavoratrice proseguirà come prima. Anzi, il rischio è che in presenza di sempre maggiori spinte competitive piccoli, medi e grandi capitalisti chiedano ulteriori margini di manovra al Governo, che, siamo sicuri, cercherà di concederli. Non dobbiamo stupirci, infatti, che i primi effetti di queste richieste si siano già tradotte in legge con un aggiornamento dei Decreti Sicurezza finalizzati, non a caso, a inasprire ulteriormente le pene per azioni di lotta come l’occupazione di immobili o come i blocchi stradali – leggasi, picchetti dei lavoratori.

In Italia dobbiamo riaprire una grande stagione di mobilitazioni sui luoghi di lavoro, che rimetta al centro la questione del salario. Per farlo dobbiamo pretendere che venga superato un sistema di relazioni industriali consociativo, costruito nell’ultimo quarantennio da CGIL-CISL e UIL e Confidustria, che serve unicamente a cancellare la democrazia nei luoghi di lavoro e a indurre una moderazione nelle rivendicazioni salariali.

Anche le ultime tornate di rinnovi contrattuali, stanno dimostrando come il “cristallizzato” sistema delle relazioni industriali – imperniato su una serie di protocolli fra le parti sociali e che vede il suo punto ultimo nel Testo Unico sulla Rappresentanza del 2014 – sia assolutamente incapace di garantire il recupero del potere d’acquisto dei salari, nonostante alcuni anni di inflazione galoppante, che ha toccato il 12% nel 2022 e quasi il 6% nel 2023.

C’è innanzitutto il problema del fatto che l’indice IPCA è diventato il parametro di riferimento su cui calcolare gli aumenti retributivi – indice depurato dai costi delle materie energetiche che sono proprio quelli che determinano la fetta più importante di inflazione.

C’è il problema che l’assenza di conflitto sindacale organizzato sta impedendo da quarant’anni un celere rinnovo dei contratti collettivi, lasciando intere categorie di lavoratori con vacanze contrattuali anche di decenni.

C’è il problema che, come testimoniato anche dal recente documento del CNEL sul salario minimo, quote economiche sempre più ingenti siano state spostate dai minimi tabellari andando invece ad ingrassare Enti Bilaterali e fondi sanitari e di previdenza complementare privati, cioè società private nei cui consigli di amministrazione siedono assieme rappresentanti di CGIL – CISL – UIL e associazioni datoriali.

Infine, c’è il problema che la contrattazione aziendale, sempre meno diffusa a causa dell’estendersi della esternalizzazione in appalti temporanei di interi processi produttivi, è stata vincolata ai margini di produttività e alla crescita dei profitti aziendali, parametri che sono assolutamente non verificabili da parte dei lavoratori.

Non è un caso, quindi, che esistano contratti come i Servizi Fiduciari, rinnovato quest’estate da CGIL-CISL-UIL con un aumento di 0,28 € in più all’ora, i cui salari sono stati successivamente dichiarati incostituzionali dalla Cassazione e per il quale è stato necessario l’intervento della Magistratura che ha commissariato alcune aziende leader del settore ed imposto ai firmatari del contratto nazionale un nuovo tavolo di trattativa in cui discutere di aumenti salariali che quanto meno consentano di superare le soglie di povertà calcolate dall’ISTAT. Poche settimane fa la Corte di Appello di Milano ha anche dichiarato incostituzionale la retribuzione di accesso per il personale di volo previsto dal CCNL della neonata compagnia ITA, sempre firmato da CGIL-CISL-UIL.

 

Non è un caso, quindi, che nel recentissimo rinnovo del CCNL dell’Handling Aeroportuale, dove sarebbero serviti 300 € di aumenti immediati per recuperare l’inflazione, ne siano stati previsti solo 140 da spalmare in tre anni, mentre 120 € sono stati dirottati nell’istituzione di un nuovo fondo sanitario integrativo privato, nel cui consiglio di amministrazione siedono anche i sindacati firmatari.

 

Infine, non e` un caso che il rinnovo dei contratti del Terziario, a partire da quello del Commercio che copre oltre 3 milioni di lavoratori ed è il più diffuso tra le aziende in Italia, sia bloccato da svariati anni con le associazioni datoriali che negano l’incidenza dell’inflazione sulle condizioni economiche delle famiglie, ed anzi si spingano anche a chiedere peggioramenti di istituti che si consideravano ormai consolidati come 14°, ferie, permessi e anzianità oltre che a più flessibilità organizzativa. Il tutto senza una chiara opposizione e mobilitazione delle tre centrali confederali.

L’attività contrattualistica del sindacato può svolgere un ruolo di stimolo e di grande sviluppo dell’economia, sociale e democratico, modificando i rapporti di potere nell’azienda e nel sistema economico. Con esso, le classi e i gruppi sociali inferiori esercitano una incessante pressione per ottenere una sempre più larga partecipazione al potere sociale, un più alto livello di vita, una maggiore sicurezza e libertà, impedendo anche la sopravvivenza di imprese parassitarie che mantengono margini di profitto soltanto grazie ai bassi salari e cattive condizioni di lavoro. Quello a cui ci troviamo di fronte, però, a causa della concertazione sociale, è una vero e proprio trattato di pace sociale, con una resa totale del piano rivendicativo del sindacato, che oggi rispolvera anche proposte integrazionistiche come la cogestione.

L’italia è l’unico caso nei paesi OCSE in cui i salari sono crollati del – 2,9%.

Solo a partire da una effettiva lotta sui salari, possiamo poi articolare la nostra azione sindacale nella richiesta – alle nostre controparti istituzionali – di una politica economica alternativa che riporti al centro dell’agenda la crescita della domanda aggregata ed archivi la stagione dei tagli alla spesa pubblica, alla spesa sociale ed a tutte le conquiste normative ottenute dal mondo del lavoro.

Come abbiamo sostenuto più volte nelle piattaforme delle nostre mobilitazioni, è necessario articolare una proposta di un nuovo modello di sviluppo economico, basato sulla solidarietà e sulla riconversione ecologica della produzione. Le risorse necessarie ci sono, e vanno trovate nelle grandissime ricchezze accumulate in questi anni segnati dalla precarizzazione del lavoro e dall’ampliamento delle diseguaglianze. Il sistema fiscale deve tornare ad essere uno strumento di attenuazione delle differenze sociali accentuando il carattere di progressività dell’imposta. Serve eliminare gli  scandalosi privilegi di cui gode la rendita immobiliare, contrastare qualsiasi ipotesi di flat tax rilanciando invece la parola d’ordine di una patrimoniale che lasci indenni i risparmi famigliari al di sotto di una determinata soglia, ma che colpisca in modo progressivo per scaglioni le grandi ricchezze.

È necessario pensare ad un piano straordinario di investimenti pubblici per la messa in sicurezza del Paese. Bisogna sostenere i beni comuni, rivendicando una sanità universale e pubblica, ben articolata sul territorio e orientata alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione. Finanziare l’istruzione, l’università e la ricerca. Ampliare l’offerta di edilizia pubblica, attraverso un piano di costruzione e manutenzione degli alloggi popolari e mettendo un tetto al livello degli affitti privati. Sviluppare un trasporto pubblico efficiente e a basso prezzo, intervenendo soprattutto sui ritardi nel meridione e rifiutando inutili e onerose grandi opere.

Serve il ritorno ad una programmazione economica attiva da parte dello Stato, che sappia arrestare il declino industriale, tutelando i settori strategici della nostra economica (Energia, Telecomunicazioni, Trasporti, Farmaceutica, Chimica, Siderurgia, Credito) senza temere la ri-nazionalizzazione di imprese fondamentali per il nostro tessuto produttivo.

Serve attuare una riconversione ecologica dei processi produttivi, facendo cessare i finanziamenti a fondo perduto e gli aiuti incondizionati e a pioggia per le imprese. Serve invece un controllo stringente sugli aiuti, vincolandone l’erogazione alla rinuncia a delocalizzare la produzione e ad operare riduzioni di personale.

Serve una proposta più complessiva per arginare il crollo dei salari, partendo da aumenti retributivi di almeno 300 €, riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario, oltre che la reintroduzione di un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari all’inflazione, come era la Scala Mobile, dato che è l’unico sistema che può tutelare con sicurezza e stabilità gli stipendi rispetto all’aumento del costo della vita.

Serve dare coerente applicazione agli articoli 36 e 39 della nostra Costituzione, con l’introduzione di un Salario Minimo di 12€, che sia un plafond al di sotto del quale la contrattazione collettiva non può scendere e che deve essere indicizzato automaticamente all’inflazione, e con la contestuale introduzione di una Legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia dei contratti collettivi, per riportare la democrazia nei luoghi di lavoro, consentendo ai lavoratori di eleggere liberamente da chi essere rappresentati.

Infine, la lotta alla flessibilità del lavoro non può che essere lo snodo decisivo: bisogna cancellare tutte quelle misure che da svariati decenni hanno trasformato il mercato del lavoro con il fine di frammentare i lavoratori, reinternalizzare tutti gli appalti e introdurre un Reddito Minimo Garantito di 1000 € per chi è senza lavoro e i pensionati, oltre che una rivoluzione degli ammortizzatori sociali per garantire la continuità del reddito.

Per discutere di questi ed altri argomenti, abbiamo pensato fosse utile confrontarci con il prof Roberto Artoni, docente emerito di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi nonché uno dei maggiori esperti di politiche fiscali nel nostro paese.

A questo proposito, partiamo con il formulare tre domande al nostro ospite:

1) Professor Artoni, ci può illustrare più nel dettaglio il contenuto della manovra finanziaria per il 2024 del Governo Meloni?

2) A suo parare, quali gruppi o classi sociali si stanno e si avvantaggeranno dall’azione di questo Governo?

3) Come commenta le ultime decisioni europee in merito al ripristino dei vincoli alla spesa ed all’indebitamento pubblici che hanno già mostrato, dopo la crisi del 2011, di non essere sostenibili?