Bandiere CUB Milano

CONVEGNO SALARIO MINIMO

CONTRATTAZIONE - RAPPRESENTANZA SINDACALE

Ha fatto molto scalpore la notizia di circa un anno fa secondo cui i salari medi in Italia, relativi al periodo 1990 – 2020, sono fermi al palo. Secondo i dati elaborati dall’ Ocse, che è una organizzazione internazionale di cui fanno parte quasi tutti i paesi a capitalismo avanzato dell’occidente, l’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti del – 2,9%. Tutto ciò, mentre l’inflazione nel 2022 toccava quasi il 12% ed oggi si attesta ad oltre il 5%.

Se però si analizzano più a fondo i dati dell’Ocse, come ci aveva già ben argomentato l’economista prof. Maurizio Donato nel suo intervento intitolato “Dinamica dei salari e immiserimento relativo”, in un convegno che avevamo organizzato sempre qui a Milano il 16 febbraio del 2019, il salario reale di chi lavora in Italia cresce sempre meno dagli anni ’70, e in virtù di questa tendenza strutturale, da qualche anno inizia anche a diminuire.

Tutto ciò nonostante la produttività del lavoro sia invece continuata a crescere, soprattutto fino alla seconda metà degli anni ’90: basti pensare che nel periodo che va dal 1960 al 2014, la produttività è aumentata del 235% (cioè un saggio annuo del + 2,5%).

E se mentre ciò avveniva la quota del reddito che spetta ai lavoratori crollava, significa che i guadagni derivanti dalla produttività ci sono stati, e sono anche stati molto significativi, ma non sono andati ai lavoratori: quindi, mentre i lavoratori si impoverivano, i percettori di redditi da capitale vedevano aumentare la grandezza della propria fetta.

La domanda che ora noi dobbiamo porci è: quali sono i fattori che hanno determinato Il crollo della dinamica salariale nel nostro paese?

Nel nostro piccolo, in un documento che abbiamo intitolato “Una piattaforma rivendicativa contro il crollo dei salari”, e che è reperibile sul nostro sito cubmilano.org, abbiamo provato a dare una risposta.

Innanzitutto registriamo che vi è stato, negli ultimi decenni, un aumento esponenziale di rapporti di lavoro part-time quasi sempre involontari, cioè non ricercati dal lavoratore ma imposti dall’azienda. Questi sono diffusi soprattutto nei settori dei servizi e tra le donne, ben spesso di neanche 20 ore settimanali. E questa tendenza si è ulteriormente incrementata a seguito della pandemia Covid, quando l’ISTAT ha iniziato a registrare che oltre un terzo delle nuove assunzioni avvenivano a part-time. 

Vi è stato inoltre un aumento dei cosiddetti “contratti collettivi pirata”, così dispregiativamente apostrofati perché prevedono condizioni salariali e normative assolutamente inadeguate per i lavoratori. Se però in questa accezione ricomprendiamo unicamente quegli accordi sottoscritti tra associazioni datoriali e organizzazioni sindacali che sono dotate di scarsa rappresentatività, se non quasi nulla, ricomprendendovi anche l’UGL, la Confsal, la Cisal e il CIU che pur sono rappresentati al CNEL, in realtà ci accorgiamo che nonostante il CNEL ne registri svariate centinaia depositati, la loro reale copertura nel mondo del lavoro è assai esigua: si stima infatti che interessino solo al massimo 490 mila lavoratori circa.

Il dato sale se invece, come noi riteniamo, si debbano ritenere “contratti collettivi pirata” anche alcuni contratti nazionali sottoscritti da CGIL – CISL – UIL. Facciamo due esempi: il primo è il CCNL Pulizie/Multiservizi, che si applica a circa 600.000 lavoratori e che è un contratto che serve a favorire i processi di esternalizzazione in appalto di intere fasi produttive, andando ben al di là delle pulizie industriali e manutenzione, dato che anche grazie ad una declaratoria interna molto ampia viene spesso applicato in altri ambiti: logistica, igiene ambientale, turismo, ristorazione, commercio, persino sulle catene di montaggio. Un operaio 2° livello del Multiservizi – che è la figura più diffusa – ha uno stipendio base di soli 6,84 € lordi l’ora.

Il secondo è il CCNL Servizi Fiduciari, applicato alla vigilanza non armata e che, nonostante abbia una diffusione molto più modesta del Multiservizi, è recentemente salito alla ribalta perché finito sotto la lente di ingrandimento della Magistratura penale. Vari colossi del settore, infatti, sono stati “commissariati”, perché secondo gli inquirenti tale contratto viola l’articolo 36 della Costituzione, dato che prevede stipendi troppo bassi, non proporzionati né alla quantità né alla qualità del lavoro prestato e tali da non garantire un’esistenza libera e dignitosa.

Parliamo infatti di 5,49 € lordi l’ora per il livello D, il più diffuso. I dipendenti di questo settore, faticano quindi ad arrivare a buste paga di 1000 € nette al mese, se non costringendosi a svariate ore di lavoro straordinario e durante i festivi.

Contro questo contratto la nostra organizzazione sta conducendo da molto tempo anche una battaglia nei tribunali del lavoro, per chiedere l’illegittimità della parte economica ai sensi dell’art. 36 della Costituzione. Ricordiamo che è stato infatti un successo del nostro ufficio legale una delle prime pronunce a livello nazionale in tal senso, con la sentenza 1613 del Tribunale di Milano del luglio 2018.

Una battaglia che però, come sappiamo, ha visto degli alti e dei bassi, con una giurisprudenza spesso divisa, e con anche una recente sentenza del Tar della Lombardia che ha sostenuto illegittimo il tentativo di dichiarare incostituzionale la retribuzione dei Servizi Fiduciari, perché si “scavalca” di fatto il sistema della contrattazione di CGIL-CISL-UIL. Ancora più recente è però la pronuncia della Cassazione del 2 ottobre di quest’anno, che dichiara incostituzionali i bassi salari dei Servizi Fiduciari, sottolineando che l’art. 36 della Costituzione definirebbe una sorta di “salario minimo costituzionale”, una giusta retribuzione individuata sulla base dell’analisi di valori economici e statistici, un minimo invalicabile a cui neanche i  contratti collettivi sottoscritti dai sindacati cosiddetti “comparativamente più rappresentativi” possono derogare peggiorativamente.

Il fenomeno delle basse retribuzioni riguarda ben spesso anche casi di lavoro parasubordinato o autonomo (per es. le false partite iva monocommittenti) e precario (per es. gli stages a rimborso spesa), figure che sono state sviluppate per frammentare e indebolire le rivendicazioni dei lavoratori, perché soffrono di una strutturale debolezza contrattuale, dato che hanno la necessità ciclica di rinegoziare la propria continuità lavorativa e retributiva. 

Infine, sempre secondo i dati incrociati del CNEL e dell’ISTAT, sarebbero circa 700.000 i lavoratori che sono senza la copertura di un contratto nazionale. Ciò significa, d’altro canto, che oltre il 90% dei lavoratori sarebbero invece coperti da contratti collettivi.

In conclusione, quindi, secondo uno studio riepilogativo dell’INPS, ci sarebbero circa 2.840.000 lavoratori che, secondo noi a causa di tutte le caratteristiche sopra descritte, riceverebbero oggi una retribuzione base inferiore ai 9 € lordi l’ora.

Al fianco di questi dati dobbiamo però anche considerare che secondo il monitoraggio annuale del gruppo Adecco, il salario base medio mensile in Italia è di 2.174 €. Quantità che posiziona l’Italia all’11° posto in UE, comunque nella metà alta della classifica, appena al di sotto della Francia ma comunque al di sotto di tutti i principali paesi più industrializzati.

Tutti questi dati, se letti assieme, ci consentono di aprire la nostra considerazione centrale: perché, come scriviamo nella locandina che promuove questa giornata, nonostante l’elevata copertura dei contratti collettivi nel nostro paese, l’attuale sistema della contrattazione collettiva ha fallito dato che è stato la principale causa di questa costante e strutturale perdita di potere d’acquisto di chi vive del proprio lavoro.

La contrattazione collettiva fino alla fine degli anni ‘70 era stata sinonimo di acquisizione di diritti economici e normativi.

Alla fine degli anni ’70, le tre principali centrali sindacali in Italia (CGIL – CISL – UIL) con la cosiddetta “svolta dell’EUR”, varano la “politica dei redditi” e la moderazione salariale.

Non vogliamo fare una analisi né delle cause macroeconomiche, né di quelle politiche che contribuirono ad arrivare questa svolta a 180° gradi, ma semplicemente constatare che quelle scelte hanno avuto come conseguenza il trend drammaticamente in picchiata della dinamica salariale nel nostro paese.

In sostanza la triplice sindacale accettò di scaricare sulle spalle dei lavoratori il compito di salvare il capitalismo in crisi, con i sacrifici e l’austerità. Su queste basi, venne inaugurata la politica della “Concertazione Sociale”, con cui il Governo, la Confindustria e CGIL–CISL–UIL, nei successivi trent’anni, hanno regolato, in via negoziale, importanti materie economiche, di politica sociale e relative alla contrattazione collettiva. Tramite questi accordi è stata data applicazione alle misure di rigore economico, alla compressione dei salari ed alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, consentendo così anche il rispetto dei vincoli per l’ingresso nell’area della moneta unica fissati nel Trattato di Maastricht (1992).

Dapprima c’è stato l’Accordo separato – poi tradotto in decreto – di San Valentino del 1984 che inaugurò la demolizione, un pezzo alla volta, della Scala Mobile. La Scala Mobile era quel sistema di indicizzazione automatica dei salari all’aumento dei prezzi di determinati beni di consumo, finalizzato quindi a tutelare il potere d’acquisto dei salari rispetto all’aumento del costo della vita.

Si è passati poi per la Legge 146/90, che noi consideriamo una legge anti-sciopero. Grazie alla sua applicazione per tramite degli accordi settoriali di regolamentazione sottoscritti da CGIL-CISL-UIL, in Italia vastissimi settori di servizi pubblici e privati sono ancora oggi sottoposti a pesanti limitazioni all’esercizio del diritto di sciopero.

Ci sono stati poi il Protocollo e l’Accordo Interconfederale del 23 Luglio e del 20 Dicembre del 1993, con cui Governo, Padronato e CGIL-CISL-UIL, hanno smantellato definitivamente i Consigli di Fabbrica e la democrazia nei luoghi di lavoro, per far spazio alle RSU, con il 33% dei seggi blindato e il controllo dei funzionari territoriali della triplice, cioè vere e proprie articolazioni del sistema confederale con il compito di garantire che nei luoghi di lavoro si applicassero i dettami di austerità e flessibilità che venivano concordati a livello nazionale. Tutto ciò servì anche ad abolire definitivamente la “Scala Mobile”, sia per via normativa ma anche smobilitando la protesta operaia, e si attribuì ai contratti collettivi nazionali il ruolo di tenere il passo con l’inflazione calcolata dall’ISTAT, ma non più quello di aumentare realmente le retribuzioni.

Perché diciamo questo: perchè i contratti nazionali venivano rinnovati per almeno 4 anni, stabilendo aumenti salariali inizialmente calcolati sulla base dell’inflazione programmata, ma che avrebbero dovuto, dopo due anni, esse ri-adeguati sulla base dell’inflazione reale.

Peccato che l’inflazione programmata si è sempre dimostrata inferiore a quella reale, oltre che la stasi delle relazioni industriali, e l’assenza di conflitto sindacale organizzato, ne ha impedito la ricontrattazione, o ha persino consentito che contratti nazionali scadessero senza venire rinnovati per anni, se non per decenni in alcuni settori. Abbiamo quindi assistito a sempre meno rinnovi contrattuali e comunque con aumenti risicati tra i 50 e gli 80 Euro lordi, spalmati su 4 anni.

Con l’Accordo Interconfederale del 2009 le parti sociali hanno inoltre individuato nell’indice IPCA, cioè l’indice dei prezzi senza i costi delle materie energetiche, il nuovo parametro a cui far riferimento per i rinnovi dei CCNL. Con esso sono stati introdotti due peggioramenti sostanziali: gli aumenti salariali non sarebbero più stati definibili in misura certa, dato che gli importi stabiliti all’atto del rinnovo del CCNL potevano modificarsi automaticamente, anche in peggio, in virtù del successivo andamento dell’indice negli anni; inoltre, gli aumenti si sarebbero tradotti in importi risibili, come avvenuto per il CCNL Metalmeccanici del 2016 (non a caso definito il peggior rinnovo dal 1963!), con una prima tranche di 1,70 € lordi. 

Anche la cosiddetta clausola di salvaguardia inserita per esempio nel CCNL Metalmeccanici che ha consentito l’erogazione di 123 € lordi di aumenti a luglio del 2023, non è da guardare come un esempio virtuoso, dato che se tale aumento non fosse stato legato all’indice IPCA ma all’inflazione reale sarebbe stato ben più corposo.

Alla contrattazione aziendale, invece, si assegnò il vincolo che ogni incremento retributivo dovesse essere coperto dalla crescita della produttività e dei profitti aziendali. Vennero quindi eliminati i vecchi Premi di Produzione, per fare spazio ai Premi di Risultato, con cui il salario è diventato una vera e propria “variabile dipendente” dal sistema.

Infine, bisogna ricordarsi che in ogni rinnovo dei CCNL degli ultimi decenni, importanti quote dei cosiddetti “aumenti contrattuali”, non sono andate ad incidere sulla paga base dello stipendio dei lavoratori, ma sono state dirottate ad ingrassare Enti Bilaterali e fondi sanitari e di previdenza complementare privati, cioè società private nei cui consigli di amministrazione siedono assieme rappresentanti di CGIL – CISL – UIL e associazioni datoriali. Lo ha dovuto ammettere anche il CNEL, nel recente documento sul Salario Minimo, scrivendo che: Negli ultimi decenni le stesse parti sociali hanno concentrato, specie in alcuni comparti, le risorse dei rinnovi contrattuali sempre meno sul minimo tabellare, quale elemento di misurazione della professionalità rispetto alle scale retributive, per introdurre nuove forme di distribuzione del valore economico del contratto in direzione della valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa, del welfare contrattuale e della bilateralità.”

Per tutto questo noi mettiamo sotto accusa il sistema della contrattazione di CGIL – CISL – UIL, Padronato e Governi, perché è stato quello attraverso il quale è stata smobilitata la classe lavoratrice anche limitando l’esercizio del diritto di sciopero, cancellata la democrazia dai luoghi di lavoro sottraendo potere alle libere rappresentanze di base dei lavoratori per trasferirlo in mano ad un consorzio consociativo che ha smantellato la Scala Mobile ed articolato un sistema contrattuale inefficace, che è servito ad introdurre massicciamente precarietà nel mondo del lavoro, dividendo e frammentando i lavoratori e favorendo i processi di ristrutturazione produttiva delle imprese, e in ultima battuta ad indebolire progressivamente il potere d’acquisto dei dipendenti. La conseguenza, quindi, a quarant’anni dalla “Svolta dell’Eur” è che i salari diminuiscono, mentre la produttività e soprattutto i profitti della parte datoriale sono aumentati esponenzialmente, tanto che la quota del reddito che andava ai lavoratori, cioè la maggioranza della società, rispetto al PIL, era pari al 70%  a metà degli anni ’70; adesso è meno del 55%.

 

Di fronte all’emergenza salariale nel nostro paese, riassunta in quello che è diventato quasi uno slogan: “i salari medi sono decresciuti del – 2,9% rispetto al 1990”, alcune forze politiche e sindacali hanno individuato nel salario minimo legale uno strumento quantomeno utile per tamponare questa tendenza.

Negli ultimi anni sono infatti proliferate in Parlamento varie proposte di legge per introdurre un salario minimo, probabilmente quella più famosa è quella promossa dal PD e dai 5 Stelle, oltre che si stanno raccogliendo le firme per altre iniziative di legge.

Prima di entrare nello specifico, però, dobbiamo porre l’accento sue due articoli della Costituzione.

Il primo, più famoso, è l’art. 36, che recita  “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantita’ e qualita’ del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Il secondo, altrettanto importante ma ben spesso dimenticato, è l’art. 39 che ci dice che “i sindacati […] possono rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”

Questo articolo è rimasto sino ad oggi inapplicato, dato che non esiste una legge democratica sulla rappresentanza sindacale e sulla efficacia obbligatoria dei contratti che misuri la proporzionalità – e quindi l’effettiva rappresentatività – delle parti stipulanti i contratti collettivi.

Infatti, i contratti collettivi, non sono obbligatori per le aziende, ma sono atti di autonomia privata efficaci solo tra le parti stipulanti. Basta pensare che ci sono infatti 700.000 lavoratori a cui non viene applicato nessun contratto collettivo. Ad un’azienda basta non aderire ad alcuna associazione datoriale per non essere obbligata ad applicare i CCNL. Fu proprio così che fece la FIAT con Marchionne per uscire dal CCNL Metalmeccanici, dando disdetta all’adesione a Federmeccanica.

Nonostante ciò, la stragrande maggioranza delle aziende nel nostro paese applica un contratto collettivo, perché? Innanzitutto, paradossalmente, ciò è anche dovuto al fatto che in Italia non esiste un salario minimo definito dalla legge e pertanto i giudici, proprio per cercare di dare attuazione all’art. 36 della Costituzione, hanno dovuto individuare un parametro di riferimento. Pertanto, la maggioranza della giurisprudenza ha individuato nei minimi retributivi previsti dai CCNL di settore – pur non essendo però un parametro vincolante – i livelli al di sotto dei quali le aziende non potessero andare, così che anche le aziende più riottose, per evitare l’incertezza di contenziosi legali, hanno finito per applicare un CCNL, ma solo per comodità propria.

Nel nostro sistema, pertanto, l’introduzione di un salario minimo per legge, tanto più se di importo inferiore al trattamento complessivo garantito dai contratti collettivi, potrebbe spingere le aziende ad uscire da quest’ultimi e ad applicare unicamente il salario minimo, per loro ben più conveniente: infatti, sia nel caso delle propose di salario minimo di 9 o 10 euro all’ora, la maggior parte dei CCNL prevede retribuzioni complessive superiori.

Bisogna infatti spiegare bene ai lavoratori che perdere il CCNL significa perdere tutta una serie di voci di salario diretto e indiretto: come il pagamento dei primi 3 giorni di carenza per malattia che competono all’azienda, le integrazioni aziendali alle quote di malattia/maternità/infortunio pagate dall’INPS, gli scatti di anzianità, le maggiorazioni per straordinario/festivo/notturno, festività non godute, la 13° (che è obbligatoria solo nei settori industriali) e la 14°, i r.o.l., indennità di funzione e premi vari, edr e indennità integrative ecc… Tutte queste voci sono esclusivamente previste dalla contrattazione e concorrono a determinare il netto finale dello stipendio!

Il salario finale, infatti, non è dato solo dal rateo orario della paga base, ma da tutta una serie di altre voci che definiscono il Trattamento Economico Complessivo dei CCNL, e che sono previste per il lavoratore solo ed esclusivamente se l’azienda gli applica un contratto collettivo.

E proprio la vicenda FIAT/Marchionne poco fa citata, potrebbe mettere in luce un’amara possibilità: la FIAT uscì da Federmeccanica per non applicare più il Contratto Nazionale dei Metalmeccanici, ed andare a contrattare un nuovo Contratto Nazionale specifico per il gruppo FIAT, il cosiddetto CCSL, che prevedeva trattamenti peggiorativi. Le grosse aziende, per la loro complessità, hanno ben spesso necessità di un contratto che serva a regolare e uniformare i trattamenti per i dipendenti, per standardizzare i processi così da evitare che la gestione dei rapporti di lavoro si trasformi in una giungla. Lo stesso però non si può dire per le piccole aziende, molto meno incasinate sotto questo profilo.

Ma voi vi immaginate tutto quel sottobosco di cooperative e srl, che popolano il mondo degli appalti e subappalti oltre che le piccole e piccolissime imprese, spesso di natura pseudo famigliare, che costellano il nostro tessuto produttivo. Tutte aziende che già ora cercano di applicare il contratto nazionale meno costoso e che non si capisce per quale motivo, a fronte del solo obbligo legale di applicare il salario minimo, dovrebbero continuare a riconoscere al lavoratore i trattamenti “in più” previsti da un contratto nazionale? Disapplicherebbero sicuramente i contratti nazionali e quindi addio a 13° e 14°, carenza e integrazione malattia, scatti di anzianità, maggiorazioni e tutte le altre voci che abbiamo già citato prima.

E’ indubbio che nel nostro paese siano sempre più i lavoratori che sono “poveri nonostante il lavoro”. E quindi diventa sempre più importante chiarire se è necessario introdurre un minimo al di sotto del quale non è possibile scendere. Non possiamo d’altronde pensare che basti quel “salario minimo costituzionale” recentemente citato dalla Cassazione, dato che è un valore comunque molto indefinito, tanto che per ora ha “colpito” solo i salari dei Servizi Fiduciari, considerando invece pienamente costituzionale il Multiservizi.

Ciò che noi vorremmo discutere oggi, e capire, è se c’è la possibilità di introdurre un salario minimo per legge, senza che però questo si traduca in un istituto sostitutivo dei contratti collettivi.

Noi abbiamo infatti sostenuto che l’introduzione di un salario minimo legale, non può che essere vincolata alla applicazione di contratti collettivi OBBLIGATORI, cioè ai sensi dell’art. 39 della Costituzione: è pertanto necessario affiancarvi l’introduzione di una legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia obbligatoria dei contratti collettivi, che stabilisca in base a un reale ed oggettivo criterio di misurazione quali sono le parti sociali che devono contrattare.

La CUB ha anche elaborato da tempo una proposta di legge sulla rappresentatività sindacale e sull’efficacia dei contratti collettivi di lavoro, presentata ad un’audizione parlamentare il 6 ottobre del 2010. Rispetto a questa proposta c’è sempre stato poco interesse da parte della politica, proprio perché un’iniziativa di questo tipo scardinerebbe l’attuale sistema – normativo e contrattuale – che consegna il monopolio della rappresentanza e della contrattazione a CGIL – CISL – UIL, che noi oggi sentiamo chiamare  “comparativamente più rappresentativi”, senza che però vi sia nessun reale strumento democratico che misuri la veridicità di questo titolo quasi nobiliare che hanno assunto.

 

¿Il recupero dei contratti collettivi di categoria previsti dall’art. 39 Cost., con una legge sulla rappresentanza come appena citata, consentirebbe di risolvere i tre problemi che ci troviamo davanti? Secondo noi si. E questi problemi sono:

1) la misura della rappresentatività dei sindacati; 2) la tutela dei lavoratori non sindacalizzati, dato che i contratti collettivi sarebbero obbligatori per tutti, in primis per le aziende; 3) la possibilità di individuare un vero salario minimo, cioè un plafond al di sotto del quale la contrattazione collettiva non può andare.

Il problema è che proprio l’art. 39 della Costituzione è il vero grande assente da tutte le proposte di legge attualmente elaborate sul salario minimo.

Il problema del fatto che il salario minimo possa tramutarsi in una misura sostitutiva della contrattazione, nonostante fosse stato inizialmente sottovalutato, è una dato ormai chiaro a tutti. Tanto che, tutte le nuove proposte di legge, cercano un escamotage per garantire l’efficacia obbligatoria dei CCNL di CGIL CISL UIL, quantomeno nella loro parte economica.

Per esempio, nella proposta di PD e 5 Stelle si dice che il salario minimo di 9 € lordi non sarà la retribuzione individuata dall’art. 36 della Costituzione, ma che il lavoratore avrà comunque diritto al “trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa, non inferiore, ferme restando le pattuizioni di miglior favore, a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera”.

Nella proposta di legge di iniziativa popolare di Potere al Popolo leggiamo che oltre al salario minimo ogni lavoratore ha inoltre diritto al pagamento della tredicesima mensilità, delle retribuzioni differite, delle ore di lavoro straordinario, degli scatti di anzianità e altre competenze previste dai CCNL di settore applicati al rapporto di lavoro”.

Vari interpreti hanno rilevato però, che in entrambi i casi il rischio è quello di riproporre il meccanismo della Legge Vigorelli, già dichiarato incostituzionale nel 1962, che voleva estendere l’efficacia generalizzata dei CCNL di CGIL CISL UIL senza passare dal requisito dell’art. 39 della Costituzione, e cioè dalla verifica della effettiva rappresentatività di quei sindacati: perché quel “comparativamente più rappresentativi” non è – ad oggi – misurato in alcun modo.

Al di là della costituzionalità o meno delle formulazioni contenute nelle proposte di legge, che sarà oggetto di approfondimento con i nostri ospiti giuslavoristi, rimane comunque un punto critico: in entrambe le proposte di legge si cerca di introdurre un salario minimo, che è la parte meritevole, ma senza intaccare il sistema di monopolio della contrattazione garantito a CGIL – CISL – UIL, avviato con la “concertazione sociale”, che è quel sistema che ha prodotto l’emergenza salariale che stiamo vivendo.  

Dal nostro canto, abbiamo sostenuto che serva invece articolare una proposta più complessiva, e che non ci può essere reale lotta per la dignità salariale, senza voler contrastare la precarietà e l’attuale sistema falsato della rappresentanza sindacale e della contrattazione.

– A fronte della attuale dinamica inflattiva, è necessario rivendicare aumenti salariali di 300 Euro, oltre che la reintroduzione di un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari all’inflazione, come era la Scala Mobile, dato che è l’unico sistema che può tutelare con sicurezza e stabilità gli stipendi rispetto all’aumento del costo della vita.

– Serve l’introduzione di un Salario Minimo di 12 Euro che deve essere inteso come un plafond al di sotto del quale la contrattazione collettiva non può scendere e che deve essere indicizzato automaticamente all’inflazione, così da non lasciare al Legislatore la possibilità di ridurlo arbitrariamente. Perché non possa trasformarsi in uno strumento sostitutivo della contrattazione collettiva, il salario minimo dovrà essere legato all’introduzione di una legge sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia obbligatoria dei contratti in modo da rispondere a due urgenze:

Innanzitutto riportare la democrazia nei luoghi di lavoro, consentendo ai lavoratori di eleggere liberamente i propri rappresentanti sindacali, possibilità che oggi gli è preclusa. Proprio perché manca questa possibilità, la nostra organizzazione è impegnata anche in una battaglia legale, perché si affermi il principio che il sindacato effettivamente rappresentativo in azienda non può essere escluso discriminatoriamente dalle trattative, così da avere il diritto di nominare le proprie rappresentanze, senza dover assoggettarsi ed omologarsi al sistema neocorporativo di CGIL CISL UIL. In questo senso, l’avv. Solfrizzo, avrà modo anche di relazionarci della vicenda Ikea, azienda in cui siamo il 3° sindacato per iscritti a livello nazionale, ma nonostante questo veniamo esclusi dalla contrattazione, mentre vengono invitati sindacati meno rappresentativi di noi. Noi siamo forse noi, in questo caso, i “comparativamente più rappresentativi”?

Il secondo effetto sarebbe definire dei parametri oggettivi – per es. numero di iscritti e risultati delle elezioni – per determinare con effettività chi sono i sindacati e le associazioni datoriali rappresentative e che possono stipulare contratti collettivi che abbiano efficacia erga omnes (cioè obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria a cui il contratto si riferisce), come dice l’art. 39 Cost.

 

E’ arrivato quindi il momento che il parlamento vari una legge democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia erga omnes dei contratti? Ci rendiamo conto che i provvedimenti di questo Governo vanno in tutt’altra direzione. Ma la necessità di dare una risposta all’emergenza salariale si fa sempre più impellente e secondo noi, questo costituirebbe certamente un punto di partenza efficace per orientare la discussione sul salario minimo.