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DOPO LA BREXIT: COME SI RIDEFINISCONO I RAPPORTI DI FORZA POLITICI ALL'INTERNO DELL'UNIONE EUROPEA

INTERVIENE PROF. GABRIELE PASTRELLO - 13/05/2021

INTRODUZIONE:

 

Buona sera e benvenuti a questo secondo appuntamento del nostro ciclo di incontri formativi sulla crisi. La settimana scorsa, con l’aiuto di Joseph Halevi, abbiamo analizzato le principali tendenze evolutive del quadro politico economico internazionale e le dinamiche in atto nel confronto tra USA, RPC, FR e UE. Oggi vorremmo focalizzare l’attenzione su quanto accade dentro i confini della vecchia Europa per cercare di capire se e come si vadano ridefinendo i rapporti di potere tra gli stati che la compongono. In questo quadro riteniamo interessante rivisitare la vicenda Brexit che, lo ricordiamo, costituisce il primo episodio di separazione di uno stato dall’UE.

Oggi è nostro ospite e ci aiuterà in questa indagine il prof. Gabriele Pastrello che è stato docente di Economia Politica e Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Scienza Politiche dell’Università di Trieste. Egli è autore di moltissimi saggi e pubblicazioni, buona parte di questi materiali è liberamente accessibile in rete. Tra i suoi libri ne segnaliamo uno attinente al tema che tratteremo dal tiolo: “La Germania: il problema d’Europa?” (Asterios 2015). A sollecitare il dibattito, ci saranno, oltre a me, anche Fabiana Stefanoni (CUB Scuola Modena), Gianpaolo Gallizio (SALLCACUB Torino), Stefano Capello (Flaica CUB Torino),  e Fabio Scolari (Centro Studi CUB).

Mi pare utile partile partire con una piccola cronologia. Il Regno Unito aderì alla Comunità Europea nel 1973 e tale decisione fu ratificata da un referendum nel 1975. La successiva adesione al patto di Maastricht del 1992, fondativo dell’UE, fu votata dal parlamento ma non venne sottoposta a referendum e su questo si innescò una lunga battaglia politica, animata da schieramenti trasversali, che culminò nel voto referendario del 2016 con il quale il  51,8% dei votanti scelse l’uscita dall’UE. Soltanto il 31 dicembre 2020 si è chiuso il lungo periodo di transizione e si è sancita la definitiva separazione tra RU e UE con le conseguenti limitazioni allo spostamento di persone, merci e servizi.

Dall’avvio della campagna referendaria per la Brexit ad oggi, il RU ha vissuto una prolungata “crisi istituzionale” durante la quale sono caduti ben due governi conservatori (Cameron e May) e che ha consegnato il Paese a Boris Johnson, ancora un esponente conservatore ma da sempre favorevole all’uscita. Le tensioni interne a quel Paese derivano anche dalla polarizzazione regionale fotografata dal referendum che ci restituisce un paese diviso tra Scozia e Irlanda del Nord, favorevoli all’UE, contrapposti a Inghilterra e Galles pro Brexit

Si tratta, come visto, di una vicenda lunga e complessa, determinata da molteplici fattori e animata anche da una diffusa ostilità popolare verso le istituzioni europee. Per orientare la discussione odierna, chiediamo quindi, al nostro relatore, di fornirci una sua illustrazione dei principali processi e delle principali motivazioni che hanno condotto all’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Una premessa necessaria per affrontare la seconda questione che poniamo a Gabriele Pastrello e che riguarda i rapporti tra  l’economia e la finanza inglesi con il resto del mondo, in particolare con i paesi membri dell’UE.

Muoviamo dalla brexit perché ci pare una vicenda dalla quale  emergono, con grande chiarezza, alcuni punti: la grande difficoltà tecnica nel gestire l’uscita di un paese dall’Unione Europea; la difficile ricerca di un problematico posizionamento autonomo sullo scacchiere della competizione internazionale con il conseguente rischio di  assumere un ruolo sempre più subalterno verso gli Stati Uniti; il fatto che, di per sé, questo scelta non comporta alcuna modifica significativa nei rapporti di forza tra le classi. Piuttosto, considerato che il focus della battaglia politica si concentra sulla dimensione nazionale, si rischia di favorire l’orientamento degli strati popolari verso forme di interclassismo fuorvianti e comunque estranee alla storia del movimento operaio organizzato.

Sabato scorso, con Joseph Halevi, abbiamo visto come la competizione internazionale sia oggi polarizzata nel confronto tra USA e RPC e come sia l’UE, sia i paesi che la compongono, aderendo allo schieramento occidentale, assumano una posizione contraddittoria con i propri interessi economici. Halevi si è  spinto a parlare del ritorno ad un clima da vera e propria “guerra fredda” che si gioca sul piano del predominio tecnologico. Oggi, con Gabriele Pastrello, vorremmo anche guardare agli effetti prodotti dalla pandemia sulla struttura economica e produttiva dell’UE e sulle risposte che questa sta dando in termini di politica economica. Insomma riteniamo che sia di grande interesse comprendere la portata del confronto in atto tra i gruppi dirigenti europei in merito alle ricette migliori per contrastare gli effetti della crisi in corso e capire se il ricorso a politiche di sostegno economico in deficit costituisca un reale cambio di direzione rispetto alle politiche di austerity oppure un mero aggiustamento tecnico.

Sappiamo che, al momento, gli interventi a fondo perduto sono finanziati con l’emissione di titoli obbligazionari della UE per i quali si porrà, prima o poi il problema della loro copertura. In assenza di accordi specifici ci si potrà basare sul sistema vigente di contribuzione in quote proporzionali al PIL, cosa che comporterà per l’Italia un contributo ulteriore di circa 50 mld di euro, che equivale ad oltre i 2/3 dei circa 70 mld che il Paese riceverà con il PNRR. Inoltre quanto otterremo dall’UE è condizionato sia per quanto riguarda la finalizzazione verso ambiti specifici (digitalizzazione, ammodernamento PA, green economy, efficientamento del mercato, ecc…), sia perché posti in relazione con le Raccomandazioni di politica economica della Commissione Europea. Ne consegue che l’UE di oggi  fa  un uso politico dei fondi destinati agli stati membri con l’obiettivo di spingere verso una serie di specifiche riforme, come fecero la BCE, Trichet e Draghi, nel 2012

Quindi l’attuale allentamento dell’austerità finanziaria non implica necessariamente che il contenuto delle nuove agende di politica economica rispondano di più e meglio ai bisogni e alle necessità della classe lavoratrice. Anzi, passata una fase iniziale di spinta, tutto si potrebbe risolvere nell’ennesima ingente socializzazione delle perdite di imprese e banche private, cui far seguire il ritorno a politiche restrittive. Tuttavia, nella contraddizione intercapitalistica che si apre vi può essere maggiore spazio per un’organizzazione sindacale che, come la nostra, intende giocare la sua parte nella ripresa del conflitto di classe tanto nel nostro paese quanto sul continente europeo.

In fondo qualche cambio rispetto al passato si può osservare anche qui, da noi.  Ci pare infatti che il governo di Mario Draghi non sial’eterno ritorno di un passato che non si riesce a superare. Non si tratta quindi di un “Governo Monti” bis ma di una compagine governativa sorretta da una maggioranza da “unità nazionale” chiamata ad ammodernare l’Italia seguendo quanto suggerito dalla Commissione. Sicuramente, lo ha detto lo stesso Draghi, la maggiore integrazione della nostra struttura produttiva in quella europea e la crescita di competitività avranno luogo a spese di quello strato di  “imprese zombie” che oggi non trovano un posizionamento redditizio sul mercato mondiale o nelle filiere produttive più forti.

Anche su questo vorremmo sentire l’opinione di Gabriele Pastrello chiedendogli di focalizzare la sua attenzione su quegli aspetti che ritiene essenziali per ripensare una azione sindacale adeguata alla prossima fase.